Lettera dalla Tunisia
I “dannati” dell’Islam
Visita alla moschea di Dar Fadhal, nel cuore di un quadrilatero tunisino considerato un vero campo minato del radicalismo violento. Ma Il clima è sereno, almeno in apparenza. Parola d'ordine: profilo basso...
«La via dei padri», questo significa nella sostanza salafismo (letteralmente i predecessori). Lo tengo a mente mentre vengo sbalottato dai cambi repentini di corsia e dai colpi di freno improvvisi, su un “taxi louage”, un taxi collettivo, di quelli che qui a Tunisi ti portano per pochi “millimes” dove vuoi e in fretta. Certo, alle volte conviene chiudere gli occhi. Per non vedere la morte in faccia. Ma presto ci fai l’abitudine e riesci anche a dormicchiare qualche minuto. I pensieri corrono allo jihadismo, alla Siria di un mio recente viaggio, e all’amarezza e alla delusione nel vedere come sul terreno le grandi strategie, quelle pensate dagli “gnomi”della politica internazionale, vengano messe in opera. Con un cinismo senza uguali. Sono diretto a Soukra. Un quartiere di cité Etthadamen, una delle grandi municipalità di Tunisi, dove, secondo le cronache ufficiali, è nata Ansar al Sharia Tunisia (sarebbe a dire i sostenitori della sharia) nell’aprile del 2011. Organizzazione legata al salafismo jihadista entrata da pochi mesi nella lista dei cattivi del terrorismo internazionale secondo il dipartimento di Stato Usa, l’Unione europea e il goveno di Tunisi. Ho appuntamento con un amico, lo chiamerò Feisal, visto che dopo la nostra ultima telefonata ha passato un non gradevole quarto d’ora in una stazione di polizia. C’è anche da comprendere un certo nervosismo da parte delle autorità tunisine. Qualche settimane fa, in marzo, il numero due di Ansar, Abou Ayoub Ettohunsi (al secolo Slim Kantar, con una condanna per l’incitamento all’assalto dell’ambasciata Usa di Tunisi) è stato catturato a Gabes proveniente dal confine libico, confessando, a quanto sembra, l’esistenza di un carico d’armi introdotto in Tunisia. Armi per i”ragazzi” che rientreranno dalla Siria, visto che tutti danno per scontato qualcosa che tanto scontato non è, la fine delle ostilità.
Il mio obiettivo è quello di entrare in una moschea di Dar Fadhal nel cuore di un quadrilatero che avrebbe tutto l’aspetto di essere un vero campo minato del radicalismo violento. E toccare con mano il clima che si vive nella comunità salafita, che in maggioranza è non violenta e dedita a una vita paragonabile al francescanesimo cattolico. Bousbous fa parte del quartiere di Soukra che confina con Ettadahmen, dove il 19 maggio 2013 ci furono scontri, con morti, tra salafiti e forze di sicurezza tunisine. Con Raoued dove i primi di febbraio di quest’anno fu individuata una cellula terroristica tra i cui membri c’era anche il probabile (reo confesso) assassino di Chokri Belaid. Tutti eliminati dalle forze speciali tunisine della Guardia nazionale (Usgn), costrette ad un intervento drastico visto la dotazione di giubbotti esplosivi del gruppo. Poco lontano si trova Cité el Gazale, dove fu assassinato, il 25 luglio 2013, Mohamed Brahmi. Una specie di campo minato della violenza radicale, secondo la narrativa ufficiale e alla luce di fatti, ahimé, difficilmente negabili. Aspetto Faisal seduto a un caffe di una zona popolare di Ariana. Vivo per un’ora una riflessiva attesa, sorseggiando un caffe e bevendo acqua minerale, mentre un camerire ogni tanto esce con due bottiglie di plastica piene d’acqua che sparge con perizia sulla strada. Un generoso tentativo per attenuare la nuvola di polvere che il traffico pomeridiano continua a produrre.
È un piccolo spaccato d’indolenza araba dove nessuno sembra affannarsi, se non a bere lentamente té bin nana (con le foglie fresche di menta) caffe o Boga cidre. L’unico segno dei tempi è il traffico di sms cui molti sembrano dedicare una continua attenzione. Motorini sfrecciano, Pegeout lentamente incedono, giovani ragazze incrociano ridendo nel dopo scuola agognato. L’amico arriva “puntuale”, con un ora di ritardo. Prendiamo un taxi al volo e dopo pochi minuti siamo già in zona. Mentre camminiamo verso la moschea Annur (la luce) cerco di fare due chiacchere con Feisal che, oltre ad avere un passo da vero maratoneta, non sembra tanto in vena di parlare.
Mi torna in mente quando a fine maggio del 2013 ero stato dentro la moschea sulla lunga avenue Ibn Kaldun a Etthadamen, che era stata il centro della protesta, pochi giorni prima. Allora il problema era stato il divieto di poter svolgere il raduno annuale a Kairouan, città sacra e simbolo dei tempi del califfato islamico. La cintura di sicurezza delle forze speciali tunisine aveva impedito l’arrivo dei barbus, uno dei pochi visti in giornata era sul mio solito taxi collettivo preso da Sousse e subito pizzicato al primo checkpoint degli uomini in nero e “mefisto” delle Brigades d’intervention rapide (Bir). Nella Medina di Kairouan si era poi scatenata per ore una violenta sassaiola. Una reazione dei “ragazzi” della città vecchia alla massiccia presenza di uomini in divisa e forse allo show della Femen tunisina, tette al vento, di fronte alla moschea Oqba. Fin da allora la paura dell’intelligence tunisina e di quelle di molti paesi occidentali era la saldatura tra lo jihadismo salafita e al Qaeda, con il teatro siriano a fare da luogo di interscambio. Contatto o relazione che al momento, secondo le agenzie Usa, non ci sarebbe ancora.
Ora l’organizzazione è finita nelle liste dei cattivi. I due gruppi libici di Bengasi e Darnah sono quelli che impensieriscono di piu il dipartimento di Stato americano, che però nega che ci siano legami diretti tra Ansar al Sharia Libia e al Qaeda. Sufian bin Qumu sarebbe il leader del braccio di Darnah, una vecchia conocenza di Guantanamo, liberato nel 2007. Ahmed Abu Katthala invece farebbe riferimento ai salafiti jihadisti di Bengasi. Comunque sia, nella lista è finita anche la componente tunisina. Il che ha cambiato tante cose. È mutato il clima in Tunisia, i salafiti sono diventati osservati speciali. Le loro moschee guardate a vista, controllate. Da ultimo un’ordinanza governativa obbliga i luoghi di culto musulmani a chiudere dopo ognuna delle 5 preghiere quotidiane che costituiscono la salat e ad aprire solo 20 minuti prima dell’adhan, la chiamata dei fedeli.
Il numero uno di Ansar, Abu Lyadh, al secolo Seifallah ben Hassine, dato per catturato a Misurata dalle forze speciali Usa lo scorso dicembre, e ancora uccel di bosco. La forza numerica dello jihadismo salafita in Tunisia è data intono ai 100mila aderenti, ma è una stima per eccesso. Pensata per raccogliere le sfide dell’era della comunicazione, la branca tunisina si era dotata anche di una struttura mediatica, la Kairouan media foundation. Il salafismo è presente e numeroso nelle sue varie componenti che, è bene ripetere, sono sostanzialmente pacifiche, dedite alla preghiera e alla promozione di una società piu attenta agli ultimi.
Il vero problema per la Tunisia sarà il rientro dei combattenti “siriani” che dicono siano alcune migliaia. Difficile fare una stima, pur essendo stato sul confine turcosiriano – con una puntata oltre Bab el Salam – e avendo incontrato alcuni di questi combattenti, è difficile avere una percezione anche approssimativa della loro consistenza numerica. Ad Azaz in Siria, nelle file dell’Islamic state in Iraq e Shams (Isis o Isil, a seconda della denominazione Shams o Levante) i tunisini ci sarebbero. Anche se il gruppo piu numeroso è quello balcanico-bosniaco, almeno nel settore settentrionale. Il jihadista tipo non è un “fanatico” come lo possiamo immaginare dalle cronache male informate. È un credente sul genere facilmente reperibile nella maggior parte delle sette luterane: siccome le tavole della legge di Mosé valgono sia per un battista del Connecticut che per un musulmano del Maghreb, ne deriva che una loro applicazione ortodossa tende a uniformarne i comportamenti, con tutti i pro e i contro. Chi sceglie il jihad è molto giovane e impregnato di un millenarismo da Armageddon. La tradizione islamica vede la Siria come l’inizio della fine del mondo. Per cui tutti vogliono esserci. Hanno un rapporto con la morte che nessun occidentale cristiano potrà mai comprendere a fondo. Ma non è la ricerca della morte, ma la sua accettazione serena come passaggio verso l’incontro “certo” con Dio. Per capirlo bisognerebbe vederli come affrontano un’esecuzione sommaria, in ginocchio, pugno chiuso e indice steso, un solo Dio, sorriso accennato, o sguardo ormai oltre… per capire quanto la fede sia potente e la loro anima immacolata. È la ricerca dell’assoluto per rispondere alla corruzione del mondo. Il problema, come sempre, è la manipolazione politica o peggio.
Questi combattenti sono dunque delle bombe a orologeria. Quale potrebbe essere l’innesco una volta tornati in patria? Una società e un governo corrotti. Diventa quindi superflua ogni ulteriore valutazione sulla loro “pericolosità”. Ma potrebbe essere anche un’indicazione per un loro eventuale recupero. Ciò che veramente disturba in Siria è l’origine e le motivazioni delle squadracce di presunti “salafiti” che seminano il terrore da lungo tempo. Vengono addestrati nel Nord del Libano in campi mobili, anche se godevano dell’uso di una struttura ospedaliera a Tripoli. Sono specializzati in checkpoint volanti e vengono ricordati per la lunga scia di sangue e efferatezze inenarrabili che lasciano come segno tangibile delloro passaggio. Si dice che vengano imbottiti di droghe sintetiche per esaltarne la ferocia. Di certo è che quelli che ogni tanto vengono catturati dalle formazioni di autodifesa non sembrano musulmani. Conoscono a stento il Corano, spesso non sanno pregare, ma fanno test ai malcapitati per capire se siano sunniti o meno. In caso contrario il destino è segnato. L’esecuzione è la scelta piu “sobria” in alternativa al taglio degli arti inferiori prima di una lenta decapitazione. E’ l’abisso siriano. E’ difficile dare un senso a tale inutile, insulsa ferocia. A meno che, ma questa è un’ipotesi giornalistica, la loro funzione, iniziata circa un paio d’anni fa, fosse proprio quella di provocare la reazione dei civili, spingerli ad armarsi, perché qualcuno potesse affermare che in Siria fossero in migliaia in armi contro il dittatore, peraltro un sanguinario anche lui.
Ma torniamo alla nostra marcia d’avvicinamento alla moschea “salafita”. Ci arriviamo pochi minuti prima della chiamata (adhan) del maghreb (tramonto), la quarta e penultima preghiera della giornata. Giriamo attorno finche non vediamo l’ingresso dei bagni in un edificio adiacente. Lasciamo scarpe e calzini in una scarpiera all’ingresso della jamaa (moschea grande) e andiamo a fare le abluzioni. Mani, occhi, naso, orecchie, capelli, braccia e piedi devono essere immacolati per pregare, per presentarsi di fronte a Dio. La presenza di salafiti, barbe d’ordinanza (anche Feisal la sfoggia) jalabya e copricapo è piu nutrita del solito. Ma è l’unica differenza riscontrabile rispetto a qualsiasi altra moschea di Tunisi. Il clima è tranquillo e la preghiera, tra un al Fatiah, che apre, e un Tashadu che chiude l’orazione religiosa è un’abitudine che avvicina coloro che la praticano. Il clima è sereno, almeno in apparenza. Parola d’ordine, profilo basso. E i salafiti in Tunisia si preparano a un’altra lunga stagione di “Quaresima”.
Le immagini (e il selfie: nella moschea di Dar Fadhal è proibito fare fotografie) sono di Pierre Chiartano