Lidia Lombardi
Licei capitolini in scena

Il pane di Oreste

Tra le tante, lodevoli iniziative di “Classici dentro” anche la messa in scena a Palazzo Altemps de “Le Mosche” di Sartre, realizzato da studenti e professori di storici istituti come Giulio Cesare, Virgilio e Visconti. A dimostrazione che il nutrimento culturale è ancora un buon investimento...

Chapeau ai ragazzi del classico, ai loro professori, ai loro presidi. Chapeau alla letteratura del mondo antico e a quella dei secoli appena trascorsi. Alla scultura antica, alla bellezza e al carisma della città eterna. Alla parola, il verbo, che scava nell’animo, fa ridere, piangere, temere. Che rilancia le eterne domande sull’esistenza. Tutto questo ci veniva in mente assistendo allo spettacolo messo in scena lo scorso fine settimana con un pool di studenti dei licei classici capitolini – Giulio Cesare, Virgilio e Visconti – diretti da un talentuoso regista, affiancati da qualche attore professionista, sostenuti dai loro istituti uniti nella rete “Classici dentro”. Sono incontri, conferenze, dibattiti scaturiti dalla constatazione che la cultura classica pare in disarmo, come provano le iscrizioni diminuite nei licei, le ore di storia dell’arte falcidiate, un atteggiamento insomma che mette nel cantuccio le materie umanistiche a favore non tanto della scienza – che è errato separare dalla letteratura, dall’arte, dalla filosofia – ma della tecnologia.

ClassicidentroIl classico non si mangia, verrebbe da commentare parafrasando l’infelice uscita dell’ex ministro dell’Economia Tremonti, che avviò i tagli lineari alla cultura convinto di risollevare anche in questo modo il Bel Paese. A dire che non è vero, che l’individuo è “classico dentro”, perché riflette sull’essere e sulla storia, sul trascendente e sull’immanente e cerca le parole giuste per esprimerlo, è stato appunto lo spettacolo presentato in una cornice d’eccezione, il Palazzo Altemps, onusto di sculture antiche come sede del Museo Nazionale Romano. Andava in scena Le Mosche, del filosofo-scrittore Jean-Paul Sartre, rivisitazione novecentesca dell’Orestea di Eschilo. Là dove si narra la tragedia dei fratelli Oreste ed Elettra, depauperati dell’amore paterno e del regno: per la sciagurata passione della madre Clitennestra nei confronti di Egisto, che uccide il re Agamennone, si impossessa del potere, fa di Elettra poco più di una serva e di Oreste un fuggitivo. Un ordine sovvertito che trasforma Argo in mefitica città.

Ci pensa Sartre a reificare il senso di sfacelo: l’abitato, la reggia, i cittadini, la polis tutta è assediata da nugoli di mosche. Ma il capriccio del fato si allarga nel testo novecentesco (Sarte scrive nel ’42, nella Francia occupata dai nazisti) a quello della libertà. Libertà di scegliere il destino, di affondare il coltello per la giusta vendetta, di portarsi poi appresso gli squarci del passato, la scia di sangue, l’assillo del matricidio. Oreste torna nella sua città, sotto mentite spoglie. Non lo riconosce Elettra, ridotta a fantasma di se stessa. Uccide Egisto e con lui la madre Clitennestra. Si riprende il regno in un assordante silenzio. Muta la sorella, vuota la piazza. Solo le mosche, odierne erinni, ronzano e volano impazzite, immagine del caos della storia. Eccolo dunque il sigillo tra mito e storia, tra un testo greco e quello di uno dei fari dell’esistenzialismo novecentesco. Ecco il perno attorno al quale ruota lo studente di un secolo fa e quello di oggi. Così come la scuola di ieri e quella di domani, se non arriverà un Egisto a imporre l’oblio delle radici e della consapevolezza.

Palazzo AltempsLa messinscena ha regalato al pubblico la possibilità di attingere a queste riflessioni ma anche quella di emozionarsi, in virtù della regia di Marcello Cava e della prova degli attori. Si sono mossi non su un palcoscenico, ma in tre luoghi di Palazzo Altemps, portandosi appresso il pubblico e dunque potenziandone il coinvolgimento. Prima in una sala, di fronte a carismatiche sculture antiche. Poi nel cortile, che è diventato così agorà, e centro sul quale prospettavano le logge affrescate, pari a facciate del palazzo di Agamennone. Infine, nell’acme della tragedia che fa di Oreste un assassino vendicatore, nel chiuso del piccolo teatro nobiliare, dal boccascena cesellato. La povertà dei mezzi si è trasformata in scelte ingegnose: il lungo drappo rosso sciorinato da Egisto affacciato alla loggia è la scia di sangue che il tiranno ha seminato; i flashes dei cittadini-coro quando Oreste spara al patrigno sono insieme riflettori sulle facce stralunate e rimandi allo sciacallaggio della cronaca quotidiana, pronta a sbattere il mostro in prima pagina.

Lodevoli gli attori, anche nella gestione dei microfoni per far pervenire al pubblico sparso nel palazzo le parole di Sartre. Elettra ha avuto il tremore e la voce rotta di Chiara Palma; Oreste il corpo rigido e l’eloquio straniato di Flavio Capuzzo Dolcetta; Clitennestra è stata una algida Debora Petrocelli, Egisto uno sfatto Vito Favata, Pilade, l’amico di Oreste, un dubbioso Nicola Pecora. A Giove, commentatore scettico e appena scosso dal groviglio degli eventi, ha dato il volto e la capigliatura bianca Piero Marietti. Le musiche dal vivo hanno contato sulla mano e sul fiato sapiente di Damiano Venturiello al mandolino e Alice Murzi al sassofono. Applausi a tutti e una serpeggiante domanda: perché l’ingresso gratuito per il pubblico? Con la cultura si deve mangiare, magari comprando qualche libro per arricchire le biblioteche di “Classici dentro”.

Facebooktwitterlinkedin