Fa male lo sport
La lezione del Cholo
Diego Pablo Simeone, portando in vetta al calcio europeo l'Atletico Madrid operaio, ha dimostrato che non basta spendere e imbottire le squadre di campioni per vincere. Servono anche cuore e idee
Come un imperatore Inca, ha quasi imposto le mani, quasi fosse un rito, sulla folla rojiblanca del Vicente Calderon, lo stadio dell’Atletico Madrid che sorge sul Manzanarre: quelle due mani sollevate e poi abbassate ritmicamente per eccitare, sostenere, esaltarsi. Diego Pablo Simeone, detto el Cholo, cioè l’indio, il meticcio, è l’uomo del giorno sul pianeta calcio. Quarantaquattro anni alla fine di aprile, sta portando la seconda squadra della capitale spagnola, quella umile e operaia, quella che non ama il Real, quella fondata da studenti baschi, in cima al calcio europeo. Intanto alle semifinali di Champions, dove ci stanno anche Real, Bayern e Chelsea, ricchi e più famosi club.
Simeone ha demolito il Barcellona, l’onnivora, l’insaziabile squadra di sua maestà Messi. Diego Pablo non è il solito pittoresco sudamericano, ex calciatore, che si mette a fare l’allenatore perché non sa fare altro. Questo è un uomo di cervello, un combattente giudizioso che si mette a tavolino e studia. Si togliesse quella coroncina del rosario con Crocefisso che gli esce dalla camicia (lo diciamo per rispetto della Croce) e che lo fa apparire un po’ boro romano, sarebbe perfetto. Il clamoroso successo su Neymar & Co lo colloca alla pari dei grandi strateghi del rettangolo verde: Mourinho e Guardiola. La notte storica (relativamente ad una sfera di cuoio che rotola su un prato) non è fatta solo di sturm und drang, di impeto e assalto, di foga e fughe sulle fasce laterali. Simeone ha allestito una difesa a maglie strettissime che lavorava con grande tempismo a caccia del pallone e degli avversari, fino ad asfissiarli con un pressing altissimo che cominciava dalle parti del vecchio Pinto, il portiere con la coda di cavallo del Barça. Messi, Fabregas e compagnia il pallone non lo hanno quasi visto, inebetiti da tanto ardire. Una rappresentazione plastica del momento buio dei catalani: una squadra che forse ha chiuso un ciclo (ma c’ ancora la Liga in ballo) e piena di guai, le dimissioni del presidente Sandro Rosell che avrebbe fatto la cresta di 38 milioni nel trasferimento di Neymar, le condizioni fisiche della Pulce (che cosa sono questi vomiti frequenti di Messi dentro e fuori dal campo?), il traffico di giocatori minorenni punito (per ora) dalla Fifa con uno stop di due sessioni alle trattative di mercato.
Simeone ci ha fatto capire anche che per fortuna non tutto è perduto. Non comanda solo il dio denaro. Non è sufficiente mettere dentro un club vagonate di dollari, o di euro, o di rubli, o di petrolio, per portarsi a casa qualcosa. El Cholo maneggia uno equipo che sta al posto n.20 nella speciale classifica dei fatturati dei club europei (120 milioni), il Paris Saint Germain degli sceicchi e il Manchester United (ma anche il Real, il Bayern e il Chelsea) sono lì in cima con centinaia e centinaia di milioni di euro. Ma Cavani e Rooney sono stati accompagnati fuori dalla classe per le orecchie, via dalla Champions, andate a giocare nel cortile di casa. I biancorossi di Spagna, i colchoneros, vale a dire i “materassai” perché all’inizio della storia la maglia era simile a quella di chi lavorava la lana, hanno venduto qualche stella tipo Aguero e Falcao, hanno speso senza fare follie ed hanno preso lui: Simeone. Da quando c’è l’altro argentino sulla panca, Messi non riesce più a buttarla dentro se ha di fronte l’Atletico Madrid, che pure era stata una delle sue vittime preferite (20 gol in 15 partite). Da quando c’è il centrocampista che era arrivato in Italia, a Pisa, ad inizio degli anni Novanta, alla corte di quell’insopportabile di Romeo Anconetani, uno degli ultimi presidenti nostrani a capire qualcosa di calcio, l’Aletico (così lo chiamano i suoi aficionados) è un’altra cosa: si è preso Coppa di Spagna, Europa League e Supercoppa europea. E adesso è in testa alla Liga. Simeone era ritornato da noi alla fine dei Novanta prima all’Inter, dove aveva mandato a quel paese Ronaldo, e poi alla Lazio, protagonista dello scudetto del 2000, autore di un gol alla Juve a Torino che diede il via alla rimonta biancoceleste finita vittoriosamente nell’interminabile pomeriggio dell’Olimpico, quando nel pantano d’acqua e di polemiche di Perugia la Signora del nostro calcio conobbe una delle poche pagine amare e storte della sua storia. Ha fatto anche l’allenatore Diego Pablo, giusto sei mesi al Catania, succedeva soltanto tre anni fa. Poteva uno bravo rimanere da noi? Quelli buoni, come Carletto Ancelotti, se ne sono andati in Spagna, appunto.
Avanti Atletico dunque e pazienza se non arriverà in finale. Era una gioia per gli occhi e il cuore guardare in tv quello stadio, caldo ma non violento, che sembrava un quadro dove prevalevano i colori biancorossi, perché tutti o quasi indossavano quella maglietta rigorosamente comprata dal club e non dalla bancarella abusiva. E dove i poveri tifosi del Barcellona, venivano lasciati in pace nel loro dolore sportivo senza essere attaccati o rinchiusi nella gabbie (avete visto i tifosi juventini allo stadio San Paolo di Napoli?), derisi e picchiati, puncicati come succede dalle parti del Tevere.
Caro Cholo, che la Forza sia con te.