A proposito de "La musica è pericolosa”
Volano le canzoni
Nicola Piovani ha scritto un bel libro su di sé, sull'Italia, sulla musica e sul bisogno di cultura. Un manuale del Paese che avremmo voluto e che non è stato. Da leggere assolutamente con un occhio al futuro
Dovete leggere il libro di Nicola Piovani La musica è pericolosa! Dovete leggerlo, ovviamente, se amate la musica; dovete leggerlo se amate la cultura; dovete leggerlo se avete ancora un briciolo di fiducia in questo povero Paese; ma dovete leggerlo anche se avete solo bisogno di rinfrancare lo spirito con qualche buona idea. Sarà l’età (da un po’ ho superato i cinquanta), ma sempre più spesso mi interrogo sulla nostalgia. Cioè: mi chiedo come si fa a guardarsi indietro, magari anche ad abbozzare qualche bilancio senza correre il rischio di sembrare nostalgici. Ai miei tempi… Ecco, Nicola Piovani racconta molto di sé, abbastanza del suo apprendistato umano e musicale, molto del mondo che è stato e nel quale è cresciuto ma non lo fa mai con nostalgia. Racconta tutto questo per rimettere in fila i ricordi e riallacciare i fili del futuro. Perché è là dietro che bisogna andare a cercare il futuro: il futuro che sognavamo, quello che abbiamo trovato e quello che continuiamo a inseguire. Come dimostra questo libro saggio: La musica è pericolosa, Rizzoli, 192 pagine, 17 euro.
«Per scegliere in libertà, bisogna conoscere. Per conoscere bisogna essere in grado di ascoltare musiche diverse. Per scegliere tra Wagner e i Lùnapop, bisogna conoscerli entrambi. Sennò non si sceglie, si viene scelti, e chi nascerà in un determinato luogo e in un determinato tempo ascolterà un determinato genere di musica e basta. E invece c’è un tempo per tutto (…). E la politica dovrebbe servire a questo: mettere i cittadini in grado di scegliere, di accedere con facilità a opere e concerti, con tante repliche a costi democratici». Non so se è un problema di nostalgia, ma molti di noi, da ragazzi scelsero questa idea di politica. Si chiamava comunismo, ma io davvero non so se la possibilità di scegliere e di dare a tutti l’opportunità di scegliere abbia qualcosa a che fare con la Rivoluzione d’Ottobre o con la IV Internazionale. E, se devo dire la verità, non me ne frega niente. Preferisco seguire la rabbia educata di Nicola Piovani che continua a compitare le priorità di una società che voglia dirsi giusta e democratica. Perché la musica è proprio questo: uno strumento sociale che – spiega Piovani nell’ultimo capitolo del suo libro – conduce a Dio. Un Dio variegato, armonico, un po’ meno ingessato di quello che si vede raffigurato nelle croste delle canoniche. Un Dio che sta dentro alle cose. Anche alla giustizia che consente a tutti di conoscere Wagner e i Lùnapop onde poi fare delle scelte ponderate.
Ma, beninteso, non è un libro politico. Non è nemmeno un libro di memorie (benché Piovani qualche avventura interessante l’abbia vissuta); semmai è un libro sull’apprendistato di un artista. C’è una bella pagina dove l’autore rivela di aver sempre accettato di buon grado d’essere appellato Maestro. Nella consuetudine della produzione musicale funziona così: gli orchestrali, per esempio, vanno definiti maestri; è una convenzione. Così come un tempo gli attori erano tutti comici, anche quelli drammatici. E la spiegazione di Piovani è lieve e convincente: del termine maestro egli assume l’accezione artigianale. Il compositore è un artigiano. L’artista è un artigiano. Sempre. Artigiano della fantasia ma anche del metodo: ci sono molte belle pagine – abbastanza tecniche, ma direi sempre spiritosamente tecniche – sulla composizione musicale. D’altra parte, Nicola Piovani sa quello che fa. Qui nel suo libro parla diffusamente di inquinamento musicale: quel profluvio di rumori d’ambiente (che ne direbbe Brian Eno?) che accompagnano a casaccio qualunque nostra attività. Una volta m’è capitato di sentirgli fare (a Piovani) questa considerazione mentre da non ricordo più quale altoparlante tintinnava una specie di nastro rumoroso elettronico, di quelli che tambureggiano colpi con percussioni campionate: «È come se uno ti bussasse continuamente su una spalla per dirti qualcosa, ma senza poi dirti niente». E invece la musica è quel qualcosa che alla fine si dice.
Ricordi, ipotesi per il futuro (la musica da fare e da riequilibrare, l’Italia da recuperare) e figure che si stagliano nella memoria. Tra Fellini, Mastroianni e gli altri, mi sento in dovere (personale) qui di parlare di Fabrizio De André, del quale Piovani ricorda la collaborazione per la composizione di Storia di un impiegato. Buffo scoprire che «un riff, una frase musicale corta, semplice, facile da ricordare, senza sviluppo melodico» che fa da introduzione a uno dei brani del disco, Il bombarolo, in realtà è una citazione: una citazione delle tre note in sequenza prodotte dalle tre campane regalate da papa Pacelli alle Suore di Carità dell’Immacolata Concezione d’Ivrea di Via Sebastiano Veniero a Roma e imparate da Piovani bambino ai tempi dell’asilo. Buffo considerare che Il bombarolo, come la quasi completa produzione di Fabrizio De André, all’epoca, fu censurata dalla Rai. Questa è l’Italia: un crocevia di vaporose contraddizioni dove inferno e paradiso si confondono in continuazione e chi s’è visto s’è visto. Buffo altresì per me che, qualche anno dopo Piovani, frequentai quel medesimo asilo, senza mai aver ricostruito le rispondenze infernali delle campane che scandivano le mie mattinate di bambino.
Non so se queste brevi note vi hanno convinto a spendere 17 euro e leggervi questo libro. Spero di sì: in un periodo amaro e difficile, leggere la sobria saggezza, la squisita proprietà di linguaggio del grande musicista e la sua buona predisposizione al futuro tanto quanto al passato, mi ha fatto bene. Tanto che ogni tanto, più spesso del solito, mi viene pure da cantare: «Volano le canzoni/ sull’infelicità…». Un pezzo di Piovani e Cerami, naturalmente.