Ancora sul film di Veltroni
Talk show Berlinguer
Malgrado il tema (e la passione dell'autore), il documentario sul mito di Berlinguer è un'opera senza anima. A tratti sembra una antica tribuna politica
Quando c’era Berlinguer, c’erano delle noiose Tribune politiche che avevano però il pregio, ogni tanto, di vivacizzarsi perché poteva accadere a volte che un giornalista arrivasse con un pacco di spaghetti e uno di riso per dimostrare che i due cibi non potevano essere cotti insieme, così come il Pci non poteva stare insieme alla democrazia italiana. Veltroni nel suo film su Enrico Berlinguer mostra molte immagini in bianco e nero di quelle serate Rai fine anni Sessanta, inizio anni Settanta e altre ne mostrerà più recenti come la famosa intervista di Minoli, un anno prima della morte del leader del Pci, in cui un Berlinguer sorridente e disteso, inconsueto per l’idea che si aveva di lui (parlò, ad esempio di ET, il film di Spielberg, «pieno di poesia e di fantasia… », ma anche di Garcia Marquez, dei figli, delle cose che vedeva in tv) fece anche quella battuta su se stesso che rivelava un’altra persona. Qual è la cosa che più le dà fastidio sentir dire di lei?, domanda il conduttore: Berlinguer non ha esitazioni e sorride quasi malizioso e sfrontato e dice: «Che sarei triste, perché non è vero».
Ecco, il film di Veltroni mi è sembrato una sorta di continuazione di quelle vecchie tribune politiche, agli studi di via Teulada si è sostituito un terrazzino nei pressi di San Pietro, il Cupolone sullo sfondo, ed è lì che passano via via i vari Napolitano, Tortorella, Macaluso, Scalfari, Signorile e qualche altro, occupando la parte centrale del film e discutendo del compromesso storico e dell’austerità, dell’eurocomunismo e delle Brigate Rosse, di Moro e di Craxi. Tutte riflessioni “alte” sull’azione politica del leader comunista ma ascoltate e lette tante volte, ormai consumate. Quasi un talk show moderno sugli anni e la politica di Berlinguer e del Pci, l’epitaffio ad un epoca e una storia finita con quei funerali a San Giovanni. Materiale da offrire alla discussione di quel parterre di tanta bella gente che si è accalcato alla prima romana di qualche settimana fa: politici, giornalisti, gente dello spettacolo, presenzialisti che facevano un tempo tanto terrazza romana di Scola e che oggi riempiono i circoli sul Tevere e dell’Olgiata o i salotti di Sorrentino.
Non vorrei usare una sorta di lacrimatoio e misurare stille e pianti ma non mi sembra che se ne versino in abbondanza, vedendo questo documentario, sebbene non manchino i tratti i cui ti prende un groppo alla gola. È stato scritto il contrario e può darsi che io abbia torto. Avrei voluto invece esaltarmi in maggior misura, emozionarmi fino ad inghiottire la saliva, stringere i pugni come mi è accaduto all’inizio quando Veltroni mostra le immagini di quella piazza finale ormai vuota con la prima pagina dell’Unità, con quell’ADDIO in rosso, di corpo tipografico 200 o chissà che, che rotola come carta straccia sul prato di San Giovanni. O alla fine, all’agonia che inizia sul palco di Padova. Quando Toni Servillo, fuori campo, legge la lettera che un giovane Berlinguer scrisse dal carcere di Sassari nel 1944, arrestato per i moti del pane. O ancora il racconto di Alberto Menichelli, il fedele autista, o quello di Silvio Finesso, operaio patavino e dirigente locale del Pci, che era dietro Berlinguer nell’ultimo comizio. Ma tutto è trattenuto da quel blocco centrale di considerazioni politiche ed interviste che ingombra il campo, toglie spazio agli spunti che pure qua e là il documentario propone, soffoca il racconto di altri protagonisti, il popolo del Pci, ad esempio, certo ora canuto e stanco e disperso. È come se mancasse un’anima al film.
Bianca Berlinguer è anche lei su quel terrazzino con il Cupolone dietro. Ma interviene appena e non si capisce se per la proverbiale riservatezza dei Berlinguer o perché scarsamente stimolata. Eppure la direttrice del Tg3 ci fornisce uno dei pochi spaccati “umani” del racconto di Veltroni, quell’appuntamento al Bottegone per andare insieme in auto verso Fiumicino, lei diretta in Sardegna, il padre a Genova e poi a Padova da dove tornerà solo in una bara. Tortorella, fuori da analisi politiche, rivela, invece, il siparietto con Berlinguer quando lui, che era responsabile della Cultura del partito, non volle portarlo a vedere la seconda parte di Novecento di Bertolucci perché «scabrosa». Berlinguer lo incontra nei corridoi del Bottegone e gli chiede il perché, Tortorella, imbarazzato, gli spiega e il segretario che lo prende per i fondelli rispondendo che lui è perfettamente a conoscenza di “certe cose”. Brandelli di un Berlinguer poco conosciuto, lontano da quel politico della iconografia classica. Poetica addirittura l’immagine in Super8, quindi sussultoria, di un Veltroni giovanissimo ad un comizio di Berlinguer a San Giovanni e con lui tanti altri che prenderanno altre strade come quel Giuliano Ferrara con il pugno chiuso. Perché non insistere più su queste cose, su una scrittura spregiudicata e ricostruire fotogrammi e frammenti diversi di un uomo politico unico, straordinario, tremendamente amato dal suo popolo nonostante gli errori commessi? Enrico Berlinguer non era una icona pop, era un politico di un’altra epoca (il merito di Veltroni è di non aver attualizzato quel messaggio politico e di non aver fatto riferimenti all’oggi), che molti di noi rimpiangono in un esercizio sterile ma che tocca il cuore e i sentimenti. Un uomo riservato e rigoroso, che si poteva ricordare certo non con aneddoti e curiosità ma restringendo l’analisi storica e politica. Perché, su questo piano, rimane valido alla fine quello che scrisse Francesco Barbagallo concludendo il suo saggio su Enrico Berlinguer quando osservava che la morte si prese prima Moro e poi Berlinguer. «Non possiamo sapere come sarebbe andata la storia d’Italia se fossero rimasti vivi, sappiamo come è andata dopo la loro morte».