A proposito di «Essendo stato»
Antigone e Borsellino
Ruggero Cappuccio parla del suo spettacolo sulla tragedia di un grande italiano e delle sue donne: «Mi ha colpito questa figura esemplare per equilibrio, etica, onestà, chiaro come l’acqua, umano, coraggioso»
Via D’Amelio, 19 luglio 1992, ore 16,58. Paolo Borsellino è a terra, mentre risuona il rumore degli elicotteri che sorvolano l’area appena sconvolta da una tremenda deflagrazione. Dubita di essere vivo, dubita di essere morto, in quell’ultimo secondo frantumato nell’infinito il procuratore aggiunto di Palermo ricostruisce la sua vita di uomo e di magistrato, di eroe-non eroe che ha fatto sua l’esortazione di Pasolini di «gettare il proprio corpo nella lotta». Parte da qui, da quest’istante dilatato, il racconto scenico di Ruggero Cappuccio Essendo Stato (prduzione Teatro segreto, 21 marzo al Cristallo di Bolzano, 23 marzo al Cardinal Massaia di Torino), un testo di rara intensità, esaltato dalle musiche di Marco Betta, dalle immagini in bianco e nero di Lia Pasqualino e dalla potenza evocativa dei segni di Mimmo Paladino che, nel palcoscenico disadorno, si fanno interpreti di un tempo sospeso dove vita e morte si incontrano sulla linea di confine.
In scena lei, autore e attore, solo. Cappuccio-Borsellino, testimone e protagonista.
Siamo nati lo stesso giorno, il 19 gennaio, siamo entrambi Capricorno. Fin da ragazzo mi ha colpito questa figura esemplare per equilibrio, etica, onestà, chiaro come l’acqua, umano, coraggioso. Ho seguito i suoi processi, studiato le sue indagini. Poi, dopo la strage di via D’Amelio, 57 giorni dopo l’attentato di Capaci in cui perì il suo amico, il suo scudo, Giovanni Falcone, si è scatenata in me una forza medianica, come se lui mi chiedesse di vivere con certe parole. E, per la prima volta, ho scritto di un personaggio reale che rivede i momenti salienti della sua vita e dice fino in fondo la verità, senza retorica, con diretta lucidità, consapevole del suo destino al quale si prepara con dolce distacco, sapendo che il suo problema più grande, al di là della solitudine istituzionale, è il tempo. Più volte ho rivisitato i miei pensieri, poi, nei primi anni del Duemila, ero in Cilento, ho capito che dovevo raccontare la sua naturalezza eroica, perché, nel vuoto inaudito della società attuale, c’è bisogno, i giovani, questi poveri deportati nel lager del consumismo, hanno bisogno di riconoscersi nell’esemplarità. E quando se la trovano di fronte rimangono catturati. Al di là dei pessimismi su questa generazione, c’è una cosa singolare, ragazzi di 17, 19 anni, che non erano ancora nati ai tempi delle stragi, sono presi dalle vicende di questi due uomini di giustizia, non solo per i contenuti etici dello spettacolo, ma anche per le caratteristiche estetiche. Ecco, un esempio, la foto che li mostra insieme sorridenti, ironici, entusiasti, sinceri, per loro vale più delle parole, capiscono che hanno costruito il loro coraggio per donarlo ad altri.
Era il 2004 quando l’ha rappresentato per la prima volta, questa nuova versione è più incisiva, assume le vesti di oratorio civile.
È un diario immaginario, un lavoro aperto, mai terminato. Per me è un dovere tenere sempre alta l’attenzione su Falcone e Borsellino, anche se ho preferito non muovermi, come hanno fatto altri, sul filo del tritolo avventuroso. Ho preferito indagare altri aspetti, capire il percorso umano di due bambini che vivono e crescono nello stesso quartiere di una Palermo amata e odiata, accanto ai ragazzini che poi, da magistrati, troveranno dall’altra parte della sbarra, giocando una partita in cui saranno gli sconfitti più vittoriosi della storia. Parlano la loro lingua fatta di silenzi, di non detti; psicologi più che giudici, battitori nella giungla di violenza e omertà captano e interpretano segnali ermetici e, con capacità intuitiva, comprendono la mentalità e i meccanismi di Cosa Nostra, sfidano la logica del terrore. Sono uomini d’onore come i mafiosi per cui la parola data è legge, la differenza è che loro non uccidono. Ho voluto raccontare la loro rivoluzione culturale, ho sottoposto il testo ad Agnese Borsellino, lei mi ha detto vai avanti. Da Benevento Città Spettacolo, location del debutto, ho girato tutta l’Italia, continuo a girarla, lo farò sempre e comunque, malgrado i miei impegni lavorativi. Ora ancora di più, dopo che ho potuto aggiungere e riportare fedelmente i testi di parole mai ascoltate dagli italiani, ovvero l’audizione del 31 luglio 1988 quando Borsellino denunciava al Csm l’inadeguatezza dei mezzi di contrasto dello Stato contro la mafia.
Ha costruito lo spettacolo come uno Stabat Mater doloroso, lei che ama i classici ci ha restituito il congedo di Ettore e Andromeda.
Ci sono cinque Antigoni a far da coro a dodici movimenti. L’eroe sa che deve morire e le donne della sua famiglia sanno che morirà, in scena c’è la dignità di una categoria femminile, di chi è costretto a piangere e continuare ad amare nell’assenza del corpo. Sono donne speciali: la madre, da cui Borsellino si stava recando per accompagnarla dal cardiologo, la moglie, le figlie, Fiammetta e Lucia, la pentita Rita Atria che raccontò al giudice cose scottanti sui suoi parenti mafiosi e che poi, alla sua morte si suicidò. Ma in scena c’è anche la Sicilia, terra al femminile, condannata a livello bilaterale: da una parte le madri dei poliziotti, dall’altra le madri dei mafiosi, tutte unite nel pianto.