Nel crocevia del “mercato” dei clandestini
Vite da rifugiati
Violenze, imbrogli, bugie, sopraffazioni di ogni genere: un funzionario dell'Unhcr, l'organismo dell'Onu che si occupa di diritti, racconta come si vive quando si è in cerca di vita
Un gatto cairota salta sul tavolo e, miagolando, guarda con occhi languidi gli involtini di foglie di vite e di verza ripieni di riso. Il tavolino nel piccolo vicolo ha l’aria semplice, ma per noi è meglio di un ristorante tre stelle Michelin. Mentre le voci della città risuonano nella notte, ordiniamo un pollo arrosto dalla simpatica oste. La cucina è per strada, non vi è nessun locale al chiuso, i posti a sedere sono meno di dieci, l’aria intorno a noi allegra, quasi più da piccolo paese mediterraneo, che da megalopoli del deserto. Ci sentiamo in una piccola e paradisiaca oasi urbana che contrasta moltissimo con il racconto a tinte estremamente fosche in cui stiamo per immergerci. Il mio amico lavora per una agenzia per i rifugiati. Mentre tento di difendere il pollo dall’adorabile e intraprendete gatto la cupa storia ha inizio.
Amina, mi racconta, «vive in un quartiere di Mogadiscio e prima dell’avvento delle Corti Islamiche fa una scuola per diventare calciatrice professionista. Dopo un po’ inizia però a ricevere delle minacce. Con il passare del tempo la situazione peggiora, le dicono che è immorale giocare nelle squadre di calcio femminili. Vanno a casa sua e dicono alla madre che deve smettere e la minacciano di morte. Lei si arrende, ma nonostante questo i membri di Al Shabab pensano che lei continui a giocare di nascosto. Amina alla fine decide di lasciare il paese dopo che il fratello e il padre erano stati uccisi perché non volevano unirsi alle Corti Islamiche. Inizia a raccogliere soldi per procurarsi i documenti di nascosto e viene aiutata dalla federazione di calcio per avere le carte. La povera ragazza ha avuto anche un handicap dovuto allo shock dopo l’uccisione del padre che aveva visto morire nel suo ristorante, anche per questo sarebbe stato davvero impossibile che avesse continuato a svolgere la sua professione di nascosto come sostenuto da Al Shabab. Quando le Corti scoprono che lei è fuggita le uccidono un membro della famiglia per vendetta».
Arrivata al Cairo, aggiunge, “avendo un handicap non riesce a lavorare ed è mantenuta dalla Caritas internazionale visto che Unhcr, in Egitto decide chi è rifugiato e chi no, ma poi l’assistenza è esternalizzata alla Caritas dal momento che il governo locale non intende occuparsene. Paradossalmente è un potere che danno ad una organizzazione esterna che spesso lo fa meglio del paese stesso, tutto è garantito da associazione internazionali. Vi è una organizzazione che da supporto psicologico, lei lo ha avuto, ma poi glie lo hanno tolto. Amina alla fine ha chiesto all’Unhcr il resettlement perché non potendo lavorare per colpa della malattia e non avendo diritto in Egitto allo stato sociale, non si sente al sicuro».
Il rifugiato, prosegue, «quando arriva al Cairo va di solito nel quartiere dove stanno tutti i suoi connazionali perché lì è più facile trovare case da dividere a basso costo con persone del proprio paese, solo che questo lo espone a rischi perché gli sfruttatori sanno dove trovarli e chiedere i soldi per il viaggio della speranza che hanno sostenuto, o stuprare le donne. Lei ha avuto fortuna perché vive con una rifugiata a cui fa da baby sitter ai figli in cambio dell’alloggio gratis. Siccome però anche la sua datrice di lavoro ha fatto richiesta di resettlement ora ha paura che in futuro potrebbe trovarsi da sola e senza risorse».
Un altro caso di cui ho sentito parlare spesso, mi racconta, «sono le persone che scappano dalla Somalia perché venditori di samosa, il tipico cibo indiano e del Corno d’Africa, che essendo a forma di triangolo è considerato immorale. Anche le donne che vendono nei mercati dell’ex colonia italiana, perché vedove, vengono minacciate dalle corti islamiche perché immorale che una donna lavori».
Un altra storia molto interessante, mi dice, è quella di Giulietta e Romeo del Darfur. Lei viene da un clan arabo e lui è africano, gli uomini della famiglia di lei fanno parte delle milizie arabe che massacrano i neri della martoriata regione. Lei approfitta della loro assenza per sposare il suo amato. Il fratello, leader di uno dei gruppi dei Jajaweed torna a casa e scopre il matrimonio e decide che devono divorziare. Per ottenere il suo scopo, manda la polizia ad arrestare più volte e torturare il marito, fa inoltre rapire la sorella per alcuni mesi. La coppia riesce però a fuggire e hanno due figli, alla terza gravidanza che è a rischio tornano però a Khartoum e lì vengono rapiti e portati davanti all’imam che li aveva sposati e il matrimonio viene annullato. Lui però sostiene che essendo stato annullato con la forza, in realtà il matrimonio sia ancora valido. Lei torna a vivere dalla madre, lui mette da parte dei soldi e dopo due anni riesce a scappare. Arrivano al Cairo e pensano di essere finalmente al sicuro, ma così non sarà. Il fratello trova il loro rifugio in città e li fa minacciare più volte. Loro vanno dalla polizia e denunciano tutto più volte, i rapporti della polizia, che di solito non fa alcuna indagine in quanto non interessata alla sicurezza dei rifugiati, servono solamente per presentarli all’Unhcr per dimostrare che non si è al sicuro.. La loro speranza è di poter andare così lontano che il fratello non possa mandare nessuno.
Nel caso di Romeo e Giulietta del Darfur, mi dice, «è la famiglia che ti cerca, ma ci sono casi in cui sono i trafficanti che cercano i rifugiati per avere i 1500 dollari che chiedono per i viaggi». I trafficanti, mi racconta, sono quelli che rapiscono i migranti che da soli intraprendono il viaggio della speranza. Acchiappano i disperati, spesso in Sudan, mentre tentano di scappare dal Corno d’Africa, e se sei donna spesso ti stuprano.
Tra i rifugiati, aggiunge, «si sentono spesso storie di espianti di organi. Non so se ingigantite dagli stessi trafficanti per spaventare i rifugiati che non pagano o se sono paure collettive, ma certamente queste storie sono diffusissime e in alcuni casi provate. I trafficanti, quando vogliono essere pagati, arrivano persino ad appostarsi davanti alla Caritas per recuperare le loro vittime che non hanno ancora regolato il conto». I disperati, racconta, «una volta attraversato il Sudan vengono portati in Sinai, allungando il loro viaggio verso il Cairo. Questo avviene perché la penisola al confine con Israele è ormai una terra di nessuno, quindi lì è più facile tenerli in ostaggio. Alcuni vengono venduti a famiglie che li tengono come schiavi in casa, dove fanno tutte le faccende di casa, non possono uscire e non vengono pagati, ma solamente nutriti. Al Cairo succede raramente perché è più difficile tenere segregato qualcuno senza che nessuno se ne accorga, ma in Somalia e Etiopia avviene comunemente. Le donne delle minoranze possono essere vendute ai clan maggioritari dove fanno le schiave e vengono stuprate. Una mia assistita a cui successe questo e rimase incinta, fu picchiata a tal punto che ebbe un aborto. Un altra fu per due anni schiava di una famiglia di un clan rivale, poi scappò e finì in un campo profughi dove le offrirono un lavoro in una farm. Lei per disperazione accetta e diventa schiava in cambio di cibo. Si rompe una gamba e la liberano perché non è più utile».
Spesso con i miei colleghi, mi spiega, ci chiediamo come «fanno i rifugiati a cascare in trappole simili quando tutti sanno le storie tremende sui trafficanti, alla fine abbiamo compreso che sono talmente disperati che si prendono il rischio pur immaginando la fine che molto probabilmente faranno». In Egitto, prosegue, «al contrario che in molti altri paesi, le rifugiate non vengono obbligate a prostituirsi e molte finiscono per sposare altri immigrati. La percentuale di chi arriva e vuole andarsene, aggiunge, è però alta, ma solo meno del 20 per cento riesce ad essere reinstallati».
L’Europa per esempio non prende resettled perché stima che già attraverso il Mediterraneo arrivino moltissimi rifugiati da soli, mentre Stati Uniti, Australia e Canada, paesi dove i rifugiati arrivano, difficilmente li accettano, anche perché così possono scegliere le persone da accogliere. I rifugiati raccontano, mi dice, che la società egiziana, «è molto razzista e rimani sempre un negro. Ecco perché molti tentano di andarsene ma non è un diritto del rifugiato poterlo fare, è un caso estremo concesso solamente se si corre ancora grandi rischi». Bisogna dire, aggiunge sospirando, che «anche il viaggio dei rifugiati verso l’Europa non è migliore, se non muoiono annegando nel Mare Nostrum, dopo aver sborsato cifre immense agli scafisti, in Italia finiscono nei campi di pomodori o a vendere il proprio corpo per strada. Nel nostro paese, infatti, ricevono solamente le cure sanitarie e la scuola, ma un lavoro legale e una casa sono semplice miraggio. In altri paesi per fortuna, nei primi anni, hanno uno stipendio».
«Tutte le storie che ti ho raccontato – conclude –hanno superato tutte le puntigliose indagini che l’organizzazione per i rifugiati dell’Onu fa grazie ai molti collaboratori sia nei paesi di origine, grazie alle missioni di pace e le Ong, che nelle nazioni di arrivo dei rifugiati».
Finiamo la nostra ottima cena nel piccolo vicolo, la serata si anima di persone che bevono tè e fumano pipe ad acqua, accanto a noi dei ragazzi ci offrono una pipetta con una strana erba delle penisola arabica: non posso che pensare al contrasto stridente tra la nostra felicità e il dramma senza fine dei tanti che, pur di vivere una vita serena, affrontano viaggi senza speranza verso un mondo che li considererà degli indesiderati da spedire indietro o, se saranno fortunati, carne da macello da sfruttare, magari davanti a un fuocherello in una squallida statale italiana. Mi immergo in un lungo silenzio e assorbo i rumori del Cairo. Nella mia testa sento le voci di tanti uomini e donne che camminano verso un’agognata libertà. Un sibilo simile al vento del deserto sembra dire: non ti dimenticar di noi.