Al Teatro Massimo di Palermo
Otello all’Inferno
Nella versione di Henning Brockhaus, il dramma di Verdi/Shakespeare si apre con la distruzione dell'Eden di Hieronimus Bosch. Una metafora della nostra società dannata
Jago, prima ancora che l’orchestra attacchi con il preludio dell’opera, piomba in scena e strappa via, con perfido ghigno, una grande tela raffigurante il pannello centrale del Giardino dell’Eden di Hieronimus Bosch e scatena la tempesta iniziale, intesa come fortunale interiore. Con questo incipit Henning Brockhaus svela la cifra simbolica e collettiva che contrassegna la sua lettura registica dell’Otello di Verdi, tornato al Massimo di Palermo dopo quindici anni (l’ultimo Otello era stato quello con José Cura nel 1999) con un nuovo allestimento in coproduzione con il San Carlo di Napoli, sotto la direzione del maestro Renato Palumbo.
La lacerazione di Otello è quella dell’umanità intera che ha perduto l’istintiva e naturale felicità, oramai vocata a un insensato destino di rovina e di morte. L’isola di Cipro è luogo di dissoluzione, tetro ricettacolo del male, ridotta a poco più che un cumulo di macerie. Brockhaus si serve di una macchina scenica circolare dalle tinte fosche che avvolge e contiene l’agitarsi, sin dalla prima scena, di un’umanità turpe, impegnata in un luttuoso carnevale. E dove degli attori-mimi in maschera replicano (epperò secondo una grammatica minima e decontestualizzata) l’interazione tra i personaggi del dramma.
La preoccupazione di costellare di puntuali rimandi simbolici l’intera rappresentazione raggiunge il suo culmine di evidenza nella scelta di far trascinare dei morti-fantocci a Otello e Desdemona mentre cantano il duetto d’amore a conclusione del primo atto (Già nella notte densa), a materializzare quel sentimento di morte che aleggia fin da principio. Le scene di Nicola Rubertelli e i costumi di Patricia Toffolutti, per accentuare la luce simbolica nella quale è rivisitata la penultima opera del genio verdiano, si collocano volutamente al di fuori di un tempo storico preciso.
Se abbiamo apprezzato la colta e originale messa in scena di Brockhaus, generosa come si è detto di citazioni e riferimenti (e del quale si vuole qui ricordare almeno la sorprendente Traviata degli specchi vista allo Sferisterio di Macerata nel 2012), sovraccarica di esiti simbolici, a significare come il dramma privato dei protagonisti assurga a impietosa radiografia della condizione umana, la stessa cosa non può dirsi per un primo cast eterogeneo e la cui composizione (specie per il ruolo del protagonista) ha conosciuto non poche traversie. Il tenore argentino Gustavo Porta (Otello) nonostante la notevole presenza scenica è parso sovente in grande affanno sulla voce, con un inizio di recita (l’ultima in programma) davvero da dimenticare, per un ruolo che non sembra essergli ancora (?) del tutto congeniale. La Desdemona del soprano statunitense Julianna Di Giacomo viene fuori alla distanza solo negli ultimi due atti (davvero emozionante la Canzone del Salice e l’Ave Maria). Una spanna davanti a tutti lo Jago, risolto con grande scioltezza e mestiere, di Giovanni Meoni (notevole il suo Credo in un Dio crudel). Senza infamia e senza lode invece il Cassio di Giuseppe Varano. A completare il cast Manrico Signorini (Lodovico), Anna Malavasi (Emilia) Pietro Picone (Roderigo). Sicurezza e vanto del teatro Massimo di Palermo la qualità del coro e del coro di voci bianche, rispettivamente diretti da Piero Monti e Salvatore Punturo.
Precisa ma sostanzialmente “scolastica” la direzione di Renato Palumbo: a tratti fredda, attenta più alla pagina musicale in sé che a restituire la potenza tout court dell’impianto drammatico di un’opera dalle molteplici sfumature, flusso narrativo di parole e musica senza soluzione di continuità. A recita conclusa, allo spettatore non rimane che porsi una sconsolata domanda: quali, oggi, gli interpreti capaci di rendere fino in fondo giustizia alla straordinaria e mobilissima «prosa musicale» di un capolavoro assoluto come l’Otello verdiano?