A proposito di “Quando avrò tempo”
Poesia degli Altri
I versi di Anna Maria Carpi sembrano possedere una lente filtrante che rende immacolate le nostre miserie. Purché siano in relazione con il mondo esterno
Il nuovo libro di poesia di Anna Maria Carpi, Quando avrò tempo, pubblicato come il precedente L’asso nella neve da Transeuropa, contiene, camuffata da cronaca di una serata di poesia, una dichiarazione di poetica in negativo. L’aria è spettrale, le vie deserte, è tardi, già le dieci passate. Anche in sala la gente è poca, le luci rade. La Carpi è spettatrice della lettura e non sa capire «ciò che vogliono dire questi giovani / o solo mezzi giovani nati ormai nei 70». La conclusione è amara: «È come in una chiesa sconsacrata, / è un rosario / di non credenti, recitano cose proprie e arcane. / Chiedere cosa intendono? / A occhi bassi ascolti / e ti guardi le mani».
La poesia di Anna Maria Carpi si muove su strade opposte. Evita che la parola precipiti in un arcano insondabile per il lettore, rifiuta di muoversi in zone private e dunque inaccessibili, cerca sempre il conforto di una situazione esterna con cui dialogare, è disposta a credere e a farci credere che le proprie personali inquietudini abbiano valore solo se si consegnano a un tempo che non è quello unicamente di chi scrive. C’è una costante nella poesia della Carpi, ed è proprio la grazia con cui dialogano l’interno con l’esterno, l’interiorità del poeta con gli eventi, grandi o piccoli che siano, del mondo reale. Con un passo delicato e partecipe gli oggetti e le circostanze della vita quotidiana s’immergono nell’intimo delle nostre giornate, animano il corpo, si siedono nei pensieri.
In Quando avrò tempo la presenza degli altri, spesso animali, ancor più spesso uomini e donne estranei all’io che scrive, visti semmai una volta soltanto, serve a ricordare lo scorrere inesorabile delle ore, e che la nostra vita si muove tutta all’interno della consapevolezza della caducità di ogni cosa, pur nella ricerca di un assoluto che non è però raggiungibile, di un tempo “senza tempo” che possiamo solo desiderare, di uno spazio vitale remoto e incontaminato. Gli storni che volano all’impazzata quasi fossero stati lanciati da una mano gigante, «sbandano, ritornano, / nel loro giubilo d’essere nessuno». La loro incoscienza ci pone di fronte alla nostra condanna: «Tutti via, poi il gioco ricomincia, / il gioco in alto, al freddo, senza tempo. // Non c’è gioco per noi, noi giù nel tempo / per le vie del quartiere».
Verso gli altri l’io poetico indirizza il proprio sguardo amico, un anelito di speranza. “I cari altri” sono tutti quelli che sono «a due passi da me e non mi vedono, / non sanno che ci sono, / che sogno e in sogno parlo con loro, / e che non c’è la morte / se non ci viene tolto di parlarci». Ma è anche vero che la spinta verso l’esterno deve fare i conti con una realtà desolante e per nulla consolatoria. Il mondo è fatto spesso di silenzi e dell’impossibilità di comunicare: «ora è tutto un tacere, / domandi e non ti ascoltano e tu stesso / se ascolti l’altro è alla svelta e per calcolo».
Anche di fronte alle affermazioni più crudeli, agli atti inconsulti e perciò devastanti, la parola di Anna Maria Carpi sembra possedere una lente filtrante che rende immacolate le nostre miserie, anche se non per questo esse appaiono meno assurde e terribili. Il mondo che ci viene presentato è fatto di relazioni laceranti e comunque prive di senso, di aeroporti dove voli in ritardo mettono a nudo la mediocrità di uomini con il mondo sul tablet, che ad ogni istante guardano l’orologio e che non riescono più a godersi un attimo di ozio; o ancora di navi da crociera immense, «quei lenti mostri che oscurano il sole» e sulle quali è possibile vivere una «immortalità di pochi giorni».
La Carpi non si adatta al male del mondo, sa che non c’è via di uscita eppure continua a crederci, o finge di farlo. Ci saranno occasioni in cui tutto potrà accadere, «quando avrò tempo dico / e so che non l’avrò». Anche della mancanza della possibilità di dare un senso all’esistenza possiamo sbarazzarci con un gesto gioioso, con l’inconsapevolezza propria degli animali, volgendoci dall’altra parte: «Tenetevi per voi la vostra fine, io non ci credo. / Verrà una sera di temporale / di lampi e tuoni sopra la casa, / sulla mia via che finisce sul parco, / la mia stanza, il silenzio, la mia intatta / capacità di gioia. // Che è la fine se non un girarsi / dall’altra parte, dove il guanciale è fresco?».