Incontro con l'attore
Di padre in figlio
Emanuele Salce interpreta "Ti ho sposato per allegria" della Ginzburg dal quale il padre trasse un celebre film. «Ma ho sempre cercato la mia misura, in mezzo a narcisismi e super-io»
Di Natalia Ginzburg si ricordano fatti e opere. Le sue ascendenze antifasciste, il calvario del marito torturato e morto in carcere a Roma nel 1944, la sua militanza nella sinistra extra-parlamentare con annesse due scelleratezze (la sua firma sulla brutta lettera aperta anti-Calabresi del 1971 e la sua attiva partecipazione a una campagna innocentista in favore dei due colpevoli Panzieri e Lojacono), il suo rientro nei ranghi del Pci alle politiche 1983 (sarà eletta) e molti lavori letterari rimarchevoli, tre su tutti: Lessico famigliare, Caro Michele e Le piccole virtù. A cui va aggiunto un quarto, una commedia che sin dal titolo appare estranea al sentire melanconico ed etico dell’autrice: Ti ho sposato per allegria. Una nuova edizione di questo testo è appena stata a Firenze e debutterà alla Sala Umberto di Roma stasera, 14 gennaio; la regia è di Piero Maccarinelli, le scene sono di Paola Comencini, il protagonista maschile, Pietro, coniuge di Giuliana (Chiara Francini) e figlio di una perfetta Anita Bartolucci, è Emanuele Salce. E, incontrandolo, è dal suo cognome che partiamo, perché la vita è strana, tanto da regalare, a volte, coincidenze di imprevista bellezza. Ed è questo il caso.
Nel 1965 il grande Luciano Salce decide di mettere in scena la commedia di Ginzburg, impresa che lo occupa al punto da distrarlo dall’imminente arrivo del suo figliolo, Emanuele, appunto! Due anni dopo l’opera diventa un film scintillante, sul cui set stanno da par loro Monica Vitti, Giorgio Albertazzi e una mai troppo apprezzata Maria Grazia Buccella, insuperata icona del primo erotismo italico un po’ emancipato. Chi conosce Emanuele Salce può immaginare che cosa abbia provato quando Maccarinelli gli ha offerto questa coincidenza su un piatto d’argento. Chi lo frequenta sa come si possa sentire fiero, ogni sera, nel prendere la medesima luce che suo padre non aveva mancato mezzo secolo addietro. «Ma l’orgoglio non è uno stato d’animo che traspaia facilmente da me. Ho un alto senso del ridicolo, anche nei confronti del mestiere. Invece un senso di tenerezza l’ho provato, quello sì: mi ha colto una sorta di commozione, che nemmeno ho nascosto a chi mi stava accanto». A chi a papà Luciano aveva già dedicato un libro, un documentario e la frase più tenera di un eccellente spettacolo dedicato alle sue due figure di padri d’arte, la proposta del regista sarà suonata come una nota destinica.
Una voce risalente al 1966 ambienterebbe in un camerino il primo abbraccio di Luciano al suo neonato. «Letterario ma falso. Io nacqui nel mese di agosto, a teatri chiusi, e tra l’altro neanche a Roma. Diletta mi partorì a Londra, non certo per snobismo. Papà era ancora in attesa che la Sacra Rota sciogliesse il suo matrimonio, per cui, fossi venuto alla luce dei Colli, non avrebbe potuto riconoscermi. Sarei diventato il primo figlio d’arte trovatello dello spettacolo italiano. Vero che poi Luciano prese a latitare ma quello era quasi un cliché genitoriale, fare il papà era considerata una robetta da perdigiorno». Era così, l’esser padri valeva soprattutto a detenere e a trasmettere un anello sociale.
Quanto alla commedia, l’incontro di allora tra un libertino e una moralista pareva un processo di redenzione, e non si sapeva bene chi dei due ci avrebbe guadagnato: «La Ginzburg lo andò a trovare a casa recando con sé quattro o cinque fogli scritti, era un abbozzo di commedia. Lui le dette alcuni suggerimenti. La messinscena con Montagnani e Asti filò benissimo per due anni, da ciò il film, molto curato, con scorci del quartiere Coppedé». Non gli chiedo se sia sposato, lo so già, non lo è. «Siamo fidanzati, Giada e io, da un anno. Non è attrice, svolge un lavoro di grande responsabilità, è simpatica, è sensibile». Per la cronaca aggiungerei quel che un gentiluomo non ha mai bisogno di sottolineare: che Giada è bella e che le ragioni di una unione vanno ascoltate. Da anni, esperti coppiologi sono scatenati in un serrata critica degli “addii facili”. Dicono che ormai basti il minimo dissidio per separare ciò che un assessore con delega avrebbe unito. E pur convinto che ogni matrimonio dovrebbe essere officiato in clandestinità, ammiro, della commedia di Ginzburg, il fatto di aver acceso i riflettori sulla futilità di certe decisioni coniugali. «Proprio così, sebbene io non creda a certi sbandierati valori comuni. Mi suonano falsi. Di sicuro in amore ci si mette in gioco, ci si confronta seriamente, ma perché mai l’allegria non dovrebbe restare un motivo profondo per sposarsi? Sempre meglio della tristezza è, o no? Avevo due anni quando mia madre si separava per allegria da mio padre e si metteva per allegria con Vittorio Gassman. Ne scaturirono pettegolezzi da record, Luciano rifiutò di lasciare il minimo commento, Vittorio e Diletta attesero il placarsi dello “scandalo”; in mezzo c’ero io, forse il solo problema concreto di tutto l’affare».
Un bambino, non tanto travolto da una passione materna, quanto stritolato tra due ego smisurati, i cui sipari non calavano mai, a nessuna ora del giorno e della notte. Quello di Luciano Salce che tutto abbrustoliva con arguzia flaianea e che era persino più poeta di Vittorio, il cui super-io sfolgorava di luce propria, o di quel narcisismo che persino può oscurare la vita serena di un talento indiscusso, «… mentre io per anni sono stato a cercare la misura della mia luce riflessa da un’abat-jour! I primi trenta a cercare la via più breve per distruggermi, gli altri spesi a trovare giusta misura di me, della mia vita di uomo, insomma l’equilibrio di cui i figli dei genii e dei mattatori faticano spesso a godere».
E sarà un caso (ma non lo è) che io abbia citato a Emanuele il bel romanzo, da lui stesso evocato, di Philip Roth e che quel libro stesse a riposare proprio sul comodino della sua camera d’albergo. E sarà pure avventato, da parte mia, giudicare Emanuele Salce uno dei migliori attori figli d’arte che abbiamo in attività, fatti non salvi i comportamenti politicamente corretti, socialmente furbini o permeati da “valori comuni” (il farsi, tutti, gli affari propri) che fungono da semina al raccolto di piccole glorie. Emanuele ha difeso il suo grande stile, e con esso la tenue luce che gli ha serbato nel cuore le ombre più belle: di Luciano Salce, di Diletta D’Andrea e di Vittorio Gassman. Tutti e tre, li ha protetti per allegria.