Il documentario “Dal profondo”
Il cinema di miniera
Valentina Pedicini ha realizzato un bellissimo film sull'unica donna perito minerario italiano, al Carbosulcis. Una storia pubblica e privata di fatica, dolore, solitudine e sogni
«Ma anche nei giorni senza vento l’aria puzzava sempre di qualcosa di sotterraneo: zolfo, ferro, carbone oppure acido. E il carbone si posava sui bianchi fiori dell’elleboro invernale, insistente, incredibile come una manna nera che scendesse dai cieli maledetti». Questo è l’aspetto che più colpisce della descrizione che D.H. Lawrence fa di Wragby, la nuova dimora di Connie, la Lady Chatterly del suo celebre quanto incompreso romanzo, quando nel 1920 vi si stabilisce con il marito Clifford. Ciò che sconvolge è la lucida consapevolezza di una presenza capace di manifestarsi non solo quando il vento è a favore e trasporta con sé gli odori penetranti del sottosuolo insieme ai suoni stereotipati della sua mostruosa meccanica. È una presenza che si deposita giorno dopo giorno sulla superficie dei mobili e sulle facciate dei palazzi, causando al tempo stesso cambiamenti profondi e determinando la fossilizzazione di assetti sociali, culturali ed economici. D’altronde non poteva andare in modo diverso. Era il carbone, con la sua combustione, ad alimentare la rivoluzione industriale il cui avvento ha determinato la geografia sociale e politico-economica del mondo creando un divario fra padroni e lavoratori destinato a sopravvivere per secoli e ad inasprirsi quando l’intervento di figure di thatcheriano orientamento insieme alla scelta di fonti energetiche definite per nuove comodità più pulite ha trasformato in dinosauri i numerosi impianti minerari sparsi per tutto il mondo trascinando nella miseria migliaia di migliaia di famiglie.
La miniera è un archetipo, è un elemento che trascende tempo e spazio, che ha indelebilmente segnato il mondo tangibile quanto quello astratto che è il terreno di coltura dell’arte nelle sue più svariate forme espressive. Ha influenzato la letteratura (D.H. Lawrence, Giovanni Verga e John Reed per nominarne solo alcuni) ha acuito e plasmato la sensibilità di pittori del calibro di Vincent Van Gogh o reso possibile la nascita di gruppi come quello dei Pitman Painters, è stata la location perfetta per film horror (My Bloody Valentine) e di impegno civile (E le stelle stanno a guardare, Billy Elliot).
E la miniera ritorna sul grande schermo con il documentario Dal profondo diretto dalla regista pugliese Valentina Zucco Pedicini e presentato in occasione della VIII edizione del Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Prospettive Doc Italia. L’opera è ambientata in Sardegna e trasporta lo spettatore nella miniera di Carbosulcis, cinquecento metri sotto terra e nella vita del perito minerario e unica minatrice italiana, Patrizia. Sullo sfondo gli sforzi di un gruppo di centocinquanta minatori, in guerra perché il loro impianto non sia chiuso. Il punto di vista scelto dalla Pedicini custodisce gran parte della forza di questo notevole sebbene a tratti imperfetto documentario. È infatti una donna a scendere giù nella miniera e a lasciare che la telecamera la segua mentre si aggira intenta nel suo lavoro in un ambiente che storicamente è sempre stato ostile alle donne, riservando loro paghe inferiori rispetto ai colleghi uomini e mansioni per nulla adatte alla loro corporatura più esile. Ma Patrizia fa ancora di più, concede l’accesso ad altri abissi e ad altre buie e private profondità. Attraverso quello che forse vorrebbe essere un dialogo ma finisce inevitabilmente con l’essere un monologo che fa da voce narrante al documentario, (è una voce che strozza la sua), Patrizia parla con il padre ormai defunto riportando in superficie l’esistenza di un legame così profondo e osmotico fra padre, figlia e miniera da determinare costumi, abitudini e scelte di generazioni passate e presenti.
Valentina Pedicini ha una costruzione essenziale dell’immagine che diventa un terremoto visivo, dal cui epicentro si liberano le scosse emozionali della storia che ha deciso di raccontare. Essenziale è anche il modo in cui sceglie di portare lo spettatore nella miniera. Lo fa compiendo quella discesa negli inferi che i minatori fanno ogni giorno attraverso l’obiettivo della sua telecamera, con una soggettiva che finisce con l’appartenere non più ai lavoratori a bordo dell’ascensore ma allo spettatore. In quella discesa si avverte tutta l’oppressione di chi è vivo ma ha su di sé il peso di cinquecento metri di terra, nera, maestosa, severa e intransigente. Una volta sottoterra l’obiettivo segue Patrizia senza interferenze mentre svolge le sue mansioni quotidiane, mentre scambia qualche parola con i colleghi uomini. Ed è qui che l’opera inizia a vacillare. I dialoghi fra minatori, la struggente voce fuoricampo di Patrizia hanno dell’artificioso. Non è l’essenzialità di chi è abituato a lavorare in un contesto potenzialmente mortale la loro, ma più l’imbarazzo verso la presenza di un occhio estraneo. E nelle immagini inizia a insinuarsi gradualmente una tendenza verso l’esercizio di stile che finisce con penalizzare l’importanza sociale del tema che la regista aveva così tanto sentito l’esigenza di raccontare. Dopo la telefonata che Patrizia fa a casa a fine turno diventa estremamente difficile continuare a guardare il documentario. E mentre la si guarda osservare i segni della miniera sul suo volto stanco davanti allo specchio ci si sente traditi, presi in giro, viene voglia di lasciare la sala, ma non lo si fa perché sarebbe una grande mancanza di rispetto per chi ha investito idee e risorse nel progetto.
Non si può che ammirare l’impresa di Valentina Pedicini. C’è grande bisogno di donne che raccontino storie di donne, e soprattutto storie come quella di Patrizia. Ma c’è anche un grande bisogno di capire che per compiere simili imprese si potrebbe ogni tanto optare anche per scelte narrative meno semplici e scontate. Un esempio? La pellicola di Paul Feig Corpi da reato con i due premi Oscar Sandra Bullock e Melissa McCarthy. Il film illustra con la chirurgica e straordinaria precisione della commedia le lotte quotidiane di due donne, una agente speciale dell’FBI, l’altra tenente di polizia, in un mondo dominato da uomini. Sono due personaggi diametralmente opposti e questa distanza tra i personaggi origina una sequenza irresistibile di situazioni esilaranti risultando paradossalmente più onesto di molte opere documentaristiche.
Un altro film che non si può fare a meno di citare è Billy Elliot di Stephen Daldry, la favola ambientata nel 1984, anno consegnato alla Storia grazie alle proteste e gli scioperi dei minatori inglesi schiacciati dalla politica della Thatcher. Commedia e tragedia viaggiano spesso in coppia in questo film e i drammi, le incessanti preoccupazioni degli operai del sottosuolo vengono alla luce attraverso le vicende di un ragazzino che scopre la propria passione per il balletto classico.
Dispiace davvero dirlo ma questo documentario invece di avvicinare allontana dalle vicende della temeraria Patrizia e dei suoi colleghi. Valentina Pedicini sceglie la strada più facile per raccontare le loro storie e finisce così per, per dirla con la saggezza che è stata del grande Charlie Chaplin, «pensare troppo e sentire troppo poco».