Pier Mario Fasanotti
Alfabeto (personale) senza censura

Le Poli-Verità

Punture di zanzara in forma memorialistica, intelligenti, colte, brillanti. È quanto l'attore toscano appena scomparso aveva affidato alle pagine di un suo libro. Un “sillabario“ da rileggere per riscoprirlo

Gli attori, quelli bravi, hanno una straordinaria fortuna: se scrivono un libro, i grandi editori spalancano le porte. E questo in base alla semplicissima regola di marketing secondo cui è molto semplice, e fruttuoso, mandare in libreria un testo di persona notissima. Ditemi: una Mondadori e una Rizzoli direbbero mai di no a una proposta di Carlo Verdone o di Antonio Albanese (tanto per fare un esempio)? Se poi il testo zoppica, lo aggiustano. E il gioco è fatto. Non ho alcuna prova o testimonianza, ma le pagine che Paolo Poli (il grande attore appena scomparso) ha mandato alla Einaudi due anni fa non hanno fatto faticare alcun editor. Sì, perché (o anche perché) Poli era uomo molto colto, sapeva scrivere, era brillante, egocentrico (chi scrive lo è sempre, direttamente o no) al punto giusto e non scivolava mai nel pettegolezzo più becero. È nato così Alfabeto Poli (Einaudi, 160 pagine, 18 euro). Sotto il titolo si legge: “A cura di Luca Scarlini”: questo può contraddire ciò che ho appena detto, ma credo che l’operazione di editing sia stata formale, ossia si sia incentrata nella cornice e nella ricerca d’archivio, senza usare il bisturi sul quadro (letterario).

copertina PoliPaolo Poli significa verve, intelligenza e cultura. La struttura del testo ricorda i Sillabari di Goffredo Parise, con le dovute differenze di contenuto. Dalla A alla Z, l’attore-autore punge come una zanzara. Senza che al lettore venga voglia di ammazzarla. Anzi. Paolo Poli era nato nella periferia di Firenze, là dove non ci sono le colline. Ossia verso Prato. A vent’anni, per lavoro, andò a Roma, tornando nella città del Brunelleschi per dare esami universitari. «Ma avevo le idee ben chiare» scrive. «Sapevo che a Firenze o si fa il cameriere o non esiste altro mestiere». Aggiunge, e ha ragione da vendere, che «la provincia riconosce il prodotto soltanto quando gli arriva di rimbalzo dalla capitale». E poi Poli non sviene per malinconia campanilistica («Non sono sensibile alle gioie del ritorno»), confessa di voler morire all’estero, come Dante, magari nella «musicale Provenza dei miei poeti francesi preferiti». Comunque una stoccata a Firenze la dà: «È una città tragica, preferisco amarla da lontano, come faceva Eduardo con Napoli».

Sapeva bene di aver fatto scandalo con le sue preferenze intime. Ma: «Non sono poi così omosessuale da amare me stesso». Il suo primo amore fu un fornaio, il suo più lungo fidanzamento fu con un olandese che esportava bulbi da fiore. Dieci anni felici, senza vedersi molto, anche perché «il matrimonio muore per la continua presenza del partner. Invece svolazzando qua e là c’è una varietà: l’uomo è onnivoro, non può mangiare solo una cosa». Racconta che da bambino, a scuola delle suore, faceva il monello cercando di alzare le gonne di quelle “madri”: operazione disdicevole, ma che lo aiutò a mette al sicuro il proprio orientamento sessuale. Altro vantaggio: «D’altra parte la suora mi è sempre venuta venissimo (a teatro, ndr). Da giovane per affinità. Dopo l’ho fatta spesso per necessità, perché con la vecchiaia le prime cose che arrivano sono i bargigli. Anche le grandi attrici quando cominciano a invecchiare fanno le monache».

E a proposito del suo mestiere: «Sull’attore aveva ragione Diderot: conta più l’intelletto del sentimento. E aveva ragione Anna Magnani, suprema quando passava dal riso al pianto». Paolo Poli andò un giorno a vedere girare il film Bellissima. Entrò nel camerino della protagonista, la Magnani appunto, e sentì: «Trucco: lacrime». E poi: «E che me guardi, non devo piagne io, devono piagne gli altri». Di Carmelo Bene conserva un ricordo affettuoso: «Anche quando era ubriaco entrava e ti strappava il cuore». Poli è tagliente con le attricette di oggi: «Nell’epoca dell’immagine, a una Rina Morelli viene preferita un’oca giuliva, perché telegenica e soavemente cialtrona, mentre stappa le bottigliette nell’ultimo spot». Scrive poi che Marlon Brando aveva l’handicap della voce, così somigliante a quella di Donald Duck. Quindi «veniva doppiato con timbro stentoreo». Bell’uomo? Indubbiamente, col suo fisico “piccolo”. Lo incontrò a casa di Zeffirelli: «Era carino: mascella volitiva e un repertorio di gesti appresi alla scuola di Strasberg. Se lo chiamavi, lentamente alzava lo sguardo e ti fissava tra il macho e il languido. Un po’ come Greta Garbo. Solo che la Garbo aveva inventato il linguaggio del corpo nel cinema: la palpebra che si abbassa e vela il pensiero, la mano che tira indietro i capelli: sembrava una statua di Brancusi».

Con Laura Betti si divertì molto, anche se «era una rompicogliona, anche perché quelle donne di allora erano delle virago, altrimenti non le avrebbero lasciate vivere». E sempre a proposito dell’attrice, amica di Pasolini: «Io e Laura eravamo tra le poche ossigenate, assieme a Corrado Pani: andava il biondo svedese… eravamo bellissime… s’andava su nelle case, si faceva le pazze e si cantava». E, a quei tempi, osserva Poli, portare amici a casa «era la cosa più naturale del mondo… non si conoscevano neanche le persone, ma tutti ci accoglievano. “Avanti, avanti!”, e noi arrivavamo, due bionde uguali». Paolo Poli non si censura, nei ricordi: «Laura era insopportabile, però geniale».

L’attore fiorentino, nato nel ’29, ha buona cultura, come dicevamo. «A scuola – e a questo punto c’è una velata critica sugli allievi di oggi – si sbranava tutto. Si faceva brani di quello e di quell’altro, brani del Tasso, brani dell’Ariosto… io leggevo di tutto… anche romanzi un po’ porcelloni». Per esempio un testo di Joaquin Belda che «straripava di metafore, parlava del triangolo d’amore, alternando il linguaggio aulico e popolare… m’intrigava quella suocera di Tarquinio sdraiata su una pelle di leopardo con le intimità al vento. Il romanzo cominciava con tutto un uuh e un aah, con la signora nuda». Ha “adorato” Moravia: «Siamo tutti figli di un secolo che, con la signora Bovary, i sogni di Freud, L’uomo senza qualità e i Sei personaggi, si apre nel segno dell’incertezza suprema. Ci troviamo a nostro agio là dove il dubbio martella e il nulla avanza». Una precisazione, che reputa doverosa: «Posso anche commuovermi per il necrologio che Garboli fa di Longhi, mio professore… ma l’ultimo grido letterario, quello no davvero. C’è più trasgressione nei Fiori del male che in certi trasgressori di oggi». Fa notare poi che «prima c’era più tempo per leggere. Comunque io a luglio e agosto dico a tutti che vado in Scandinavia e mi metto a letto con Dante Alighieri, con l’Ariosto e il Tasso. E in compagnia bella sto proprio bene».

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