Anna Camaiti Hostert
Cartolina dall'America

Altro che melting pot!

Mentre il film di Steve McQueen “Twelve Years a Slave” ripropone la questione razziale attraverso la storia vera di Solomon Northup, musicista nero libero ridotto per 12 anni in schiavitù, ricerche, sondaggi e pubblicazioni descrivono negli States una realtà ancora piena di resistenze verso i cambiamenti multirazziali. A cominciare dai matrimoni misti. Ma un'inversione di rotta si comincia a intravedere...

Quando si esce dal film Twelve Years a Slave dell’inglese Steve McQueen si ha lo stomaco in bocca e la rabbia a mille. Soprattutto perché è una storia vera. Tratto dall’omonimo romanzo di Solomon Northup pubblicato nel 1841 racconta infatti la vicenda di un violinista nero che viveva da uomo libero a New York con la sua famiglia e che venne attirato in una trappola da due falsi agenti di spettacolo. Fu rapito, drogato e ridotto in schiavitù per 12 anni nelle piantagioni di cotone della Louisiana passando da un padrone all’altro. Gli fu assegnato il nome di Platt e fino a quando non incontrò il falegname canadese Samuel Bass che farà avere sue notizie alla famiglia, il giovane, interpretato da un mirabile Chiwetel Ejiofor, visse una vita da schiavo. Picchiato ripetutamente e oggetto di innumerevoli violenze, un giorno Solomon viene quasi linciato. In una scena che McQueen protrae fino a farci male, il giovane, ancora attaccato alla corda che era servita per la sua impiccagione, ma con i piedi che adesso toccano terra, viene lasciato, per un tempo che sembra eterno, con la stessa corda al collo che quasi lo strangola in un equilibrio così precario che se compie un movimento falso firma la sua esecuzione. Dopo la sua liberazione Northup divenne un attivista del movimento antiabolizionista negli Stati Uniti.

twelve_years_a_slave5Il film ha un cast d’eccezione: da Paul Giamatti, spietato “negriero” che si occupa del mercato degli schiavi in Louisiana, a Brad Pitt, il falegname che lo salverà, ambedue in piccoli camei, a un crudele e sadico Michael Fassbender sotto il quale Solomon vivrà l’ultimo periodo di schiavitù a Bendedict Cumberbatch, proprietario terriero con un cuore un po’ più umano anche se razzista e favorevole alla schiavitù. Una menzione speciale merita l’esordiente Lupita Nyong’o nel ruolo di Patsey, la schiava oggetto di interesse sessuale del padrone Fassbender e della grande gelosia della di lui moglie, interpretata magistralmente da Sarah Paulson. Patsey è anche e soprattutto oggetto di enormi violenze da parte di ambedue i coniugi per motivi assai diversi. In una scena anch’essa estremamente penosa da osservare, la donna viene frustata fino quasi a morire, apparentemente solo perché era uscita per comprare del sapone. Prima il padrone dà la frusta a Solomon obbligandolo a colpire la sua amica, poi al rifiuto dell’uomo di andare avanti, un mirabile quanto odioso Fassbendeer imbraccia l’oggetto di tortura e ferocemente colpisce incessantemente la donna sotto gli occhi compiaciuti della moglie e quelli inorriditi di tutti gli schiavi della piantagione e del pubblico in sala, fino a ridurla quasi fin di vita.

Violenze che disturbano, ma non di meno reali e legate all’attrazione-repulsione da parte degli uomini bianchi nei confronti delle donne di colore. Quel fascino proibito dell’esotico legato alle più disparate forme di razzismo che il colonialismo nelle sue diverse fogge, da Conrad in poi, ha messo in evidenza. Il corpo della donna africana nella cultura occidentale ha sempre evocato timore e desiderio di una sessualità primitiva e bestiale, legata ai poteri occulti del feticcio, oggetto capace di evocare forze oscure e misteriose. Non bisogna infatti dimenticare che Freud definiva la sessualità femminile «il continente nero». La negazione di qualsiasi miscegenation, cioè di “ibridazione” razziale in tutti i paesi coloniali ha marciato proprio in questa direzione.

Il corpo “esotico” della donna nera in particolare è stato reso invisibile in un’altalena continua tra attrazione e diniego che è la caratteristica fondamentale dello sguardo feticista. Per questo la scienza medica lo ha analizzato, sezionato, sventrato nei suoi minimi dettagli favoleggiando di una lascivia sessuale dovuta alla sua conformazione genetica che è divenuta connotazione razziale della inferiorità delle popolazioni africane nei confronti di quella bianca. In questo senso ogni forma di ibridazione tra individui di razze diverse era proibita perché deviava dalla gerarchia di leggi “naturali” e doveva essere considerata un peccato contro natura e quindi contro Dio. Così riflesso nello specchio scuro dell’immaginario collettivo occidentale il corpo della donna africana restituisce le immagini degli imperi coloniali e del loro rapporto con le culture subalterne da essi dominate. E ci fa scoprire che se da un lato queste donne erano forzate ad avere relazioni sessuali con gli uomini bianchi in un rapporto di totale soggezione, dall’altro esse acquistavano una forma di autorità che permetteva loro di resistere agli stereotipi dell’assimilazione. Tali forme di resistenza infatti contrastano con la passività che le vorrebbe ingabbiate entro l’esotico e muto stereotipo del “buon selvaggio” e contagiano i dominatori.

Le prime foto delle donne africane della fine ‘800 che le ritraggono in compagnia di uomini bianchi e che nelle intenzioni colonialiste erano la prova della missione civilizzatrice dell’Occidente, restituiscono tuttavia un’immagine diversa. Mostrano infatti il riflesso di una promiscuità ben lontana dalla rigidità della gerarchia razziale. La visibilità di quei fieri corpi di donna di dignità pari a quelli degli uomini bianchi, per la prima volta ha infranto l’immagine di un’idea di purezza, di autenticità della gerarchica superiorità delle culture dominanti. È stato l’inizio di un processo irreversibile. Che ha preso piede ovunque. Negli Stati Uniti, dove c’è stata la schiavitù e in seguito la segregazione, il processo appare più complicato, ma altrettanto irreversibile. Fenomeni di ibridazione sempre più frequenti infatti sono penetrati lentamente nella società che ancora nel suo insieme resiste, ma che tuttavia vede un numero crescente di matrimoni tra bianchi e neri giunti oggi ormai all’8,4 %. Gli esperti nel settore dicono che il processo è tuttavia lungo e presenta dei problemi.

«Quando ho svolto la mia ricerca nella comunità bianca attraversando le diverse classi sociali e in diverse zone del paese – afferma Erica Chito, professoressa di sociologia all’università Cuny di New York – la gente mi ha risposto che non aveva nessun problema al riguardo. Ma qualcuno ha anche aggiunto: “Perché complicarmi la vita, però? Il matrimonio è già diffile di per se stesso. Perché renderlo ancor più difficile?”. Adesso si cresce in un mondo multirazziale e perciò più capace di assorbire questo tipo di cambiamenti. Finché si tratta di uscire con gente diversa va bene, ma quando si parla di matrimonio ci sono ancora forti resistenze».

La studiosa ha addotto come prova di questa resistenza anche il fatto che molti giovani vivono ancora in quartieri troppo omogenei dal punto di vista etnico e le prime esperienze affettive tendono a riflettere questa situazione. In più i primi matrimoni sono quasi sempre legati alle aspettative familiari e a quelle della comunità etnica in cui si vive. E le resistenze apparentemente attraversano anche gruppi etnici diversi dai bianchi. Avita Odoom, di prima generazione asiatico-americana, afferma infatti che c’è voluto tempo per convincere la sua famiglia ad accettare suo marito Khobe, un immigrato del Ghana. «È stato molto difficile, c’è voluto tempo, ma lo sapevamo fin dall’inizio. Perfino una mia zia che vive in India quando gli ho presentato Khobe mi ha detto “mi dispiace per mio fratello”».

Il Pew Research Center ha pubblicato uno studio del 2010, il più recente sulle relazioni interrazziali, da cui appare che il gruppo più aperto a matrimoni misti è quello asiatico con una percentuale di open mind del 27.7%; seguono gli ispanici con il 25.7%, poi i neri con il 17.1% e infine i bianchi con il 9.4%.

Michel Goodwin avvocatessa nera ha incontrato il marito bianco, anch’egli avvocato, all’università del Wisconsin nel 1998. Sposati da 10 anni, adesso insegnano ambedue all’università del Minnesota a Minneapolis. La donna riporta in primo piano la difficoltà dei rapporti tra le donne nere e gli uomini bianchi che «sono stati invisibili per anni. Solo adesso stanno cominciando a venire alla luce. È parte di una narrativa nazionale nasconderli. È la perversione dei rapporti razziali in questo paese dove tutto è nascosto in piena vista». Goodwin inoltre aggiunge che per quanto riguarda i cosiddetti «privilegi dei bianchi» non ci avevano mai fatto caso fino a quando sono divenuti una coppia. Così ricorda un episodio che è avvenuto dopo l’11 settembre quando dovevano andare a New York e il marito dimenticò i documenti. «Aveva con sé solo una business card. E con quella gli fu consentito di viaggiare tranquillamente, mentre io ero perquisita continuamente pur avendo i documenti in regola. Non si può certo credere che solo perché Obama è divenuto presidente viviamo ormai in un’America post-razziale».

Con internet la scelta di incontri online per gruppi interrazziali è divenuta più semplice anche se può trasformarsi in teatro di dibattiti accesi e qualche volta razzisti. «Internet fornisce la possibilità di uno spazio sicuro per persone che hanno paura di essere respinte e che non si sentono a loro agio nell’avvicinare persone di un diverso gruppo etnico e chiedere loro di uscire», afferma Chito che ha scritto un libro sui rapporti interrazziali tra bianchi e neri, Fade to Black and White: Interracial Images in Popular Culture. Il che conferma l’esitazione ancora presente a infrangere le barriere razziali.

I social media d’altra parte rivelano a detta di Rutger Fisher, consulente di una società di incontri online, Match.com, che alla richiesta se sia importante che l’altro sia dello stesso gruppo etnico o razziale la risposta not very important è volata dal 49% del 2010 al 68% del 2012. «È un periodo molto interessante questo in America – afferma Fisher. Penso che questo sia un esempio perfetto di un trend molto più ampio verso quel melting pot che avevamo pensato di avere e non abbiamo ancora e forse questo è l’esempio che stiamo davvero marciando nella direzione giusta».

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