Lo scrittore in platea
La neve a colori
Etnie e culture si mischiano in una piccola comunità montana unita dal dolore e dalla solidarietà interiore: è “La prima neve”, nuovo film di Andrea Segre
Abbiamo visto La prima neve di Andrea Segre allo storico cinema Mignon di Roma (dove tanti anni fa, quand’era ancora un cinema d’essai, ci capitava di vedere spesso, all’ultima proiezione, un solitario Nanni Moretti che regolarmente si piazzava nei primi posti quasi sotto lo schermo). Purtroppo insieme a noi ad assistere alla proiezione c’erano poche persone benché fosse un giorno festivo. Peccato perché il secondo lungometraggio di questo giovane regista veneto, che ha fatto seguito all’apprezzato esordio di Io sono Li e ad alcuni interessanti documentari, è davvero molto bello. Forse il più bel film italiano che abbiamo visto negli ultimi tempi.
Un film intenso, doloroso, pieno di pietas, scritto a quattro mani dal regista e da Marco Pettenello, che parla di sentimenti senza mai piegare verso il sentimentalismo; un film severo e spoglio (splendida la fotografia di Luca Bigazzi) come una tragedia antica, la cui castità espressiva sembra nascere da un’esigenza morale prima che estetica. Si sente sulle spalle di Segre l’influenza di grandi registi della sua terra o di terre limitrofe – Olmi soprattutto, ma anche Mario Brenta. Ma si sente anche, prepotente, il proprio personale magistero nella forma-documentario sulla quale il regista si è fatto a lungo le ossa, che gli ha permesso di approfondire le tematiche che gli stanno a cuore della marginalità etnica e culturale (specie quella africana, ma anche quella albanese).
La prima neve è ambientato a Pergine, piccolo paese del Trentino ai piedi della Val de Mocheni, dove arriva abbastanza casualmente l’immigrato semiclandestino Dani, proveniente dal Togo e costretto a fuggire dalla Libia in fiamme per la guerra civile su un barcone insieme alla moglie incinta (la quale perirà già in terra italiana, a causa degli stenti del viaggio, mettendo al mondo la sua bambina). Il nero Dani trova lavoro in alta montagna presso un vecchio apicoltore, alloggiando in una casa di accoglienza con la nuora di questi, che vive sola insieme al figlio Michele avendo da poco perso il marito in circostanze oscure. Dani è chiuso nel suo dolore inconsolabile per la perdita della giovanissima moglie, i cui tratti non può fare a meno di riconoscere, con dispetto, nel volto paffuto della piccola, che perlopiù ignora lasciandola alle cure di un’altra immigrata indiana. Egli partecipa alle attività e ai riti della piccola famiglia ma senza realmente aderirvi. Il dolore che porta con sé non si esprime in gesti eclatanti, ma solo in quella indifferenza ostinata verso i bisogni della piccola, e nella scabra severità della sua mimica facciale, oltreché nel fatto che nulla rivela della recente tragedia che gli ha portato via la moglie. Del resto anche gli altri componenti della famiglia – il nonno, montanaro duro, coriaceo, di buon cuore ma di poche parole, il preadolescente Michele, la giovane madre – non hanno tanta voglia di comunicare, segnati anche loro da un lutto immedicabile sul quale, proprio come lui, evitano di parlare se non per enigmatiche allusioni.
È veramente notevole il modo come – attraverso la condivisione del lavoro quotidiano con il vecchio, le lunghe camminate in mezzo ai boschi col piccolo Michele a caccia di legna o di resina per il miele, le rare parole scambiate con la donna – cominci a stabilirsi fra Dani e i suoi ospiti un legame profondo, che va al di là di qualunque questione familiare e etnica. Quel doppio lutto, che incombe sulle vite di tutti come una specie di arcaico tabù, cementa fra loro un rapporto di fraternità e di amore tanto più forte quanto più è scansato, ignorato. Con il piccolo Michele soprattutto si va configurando, quasi a sua insaputa, un sentimento di paternità che diventa potentemente metaforico e che soltanto nell’epilogo della storia finirà per compiersi in una sequenza memorabile – fra i primi fiocchi di neve della stagione che imbiancano i pendii – ma che preferiamo non rivelare per non sciuparne la commovente epifania.
Diremo ancora solo degli attori, alcuni professionisti altri no, tutti eccellenti (Jean-Christophe Folly, Matteo Marchel, Anita Caprioli, Peter Mitterrutzner, Giuseppe Battiston ecc.); quasi non paiono tali tanta è la naturalezza e la profondità con cui aderiscono ai loro ruoli. Il biondo ragazzino, in particolare: scapestrato, ribelle, scontroso, figlio in tutto e per tutto di quelle montagne che lo hanno cresciuto, abituato ad arrangiarsi, nel lavoro e nei giochi, con tutto quello che si trova per le mani, che spesso si accompagna a altri coetanei formando un gruppetto che ricorda per molti versi quello di Stand by me (si ritrovano pure, come quelli, in una casetta di legno nel bosco). E certo non era facile il ruolo di quel ragazzino, così ispido nei rapporti con la madre (che accusa della morte del padre, ma fino alla fine non sapremo perché), che diserta sistematicamente la scuola, che riesce a dormire tranquillo solo nel rifugio del nonno perché a casa sua da quando ha perso il padre è affetto da ricorrenti incubi notturni e sfida la sorte sfiorando in un paio di occasioni la morte. Così come non era facile il ruolo del nero protagonista, chiuso fino alla fine nel suo muto sconforto, che scolpisce rabbiosamente, nei momenti liberi dal lavoro, in un blocco di legno, il volto amato della moglie e solo nel finale scopre quanto assomigli a quello della figlioletta.