“Dio perdona chi obbedisce alla coscienza”
Il ponte di Francesco
La rivoluzionaria lettera del Papa ai non credenti dà la misura di una Chiesa "caritatevole" che non vuole perdere contatto con l'Occidente. Ma che può contare su un architrave teologico a prova di contestazioni interne
Con la sua risposta al fondatore del quotidiano La Repubblica, papa Francesco sembra rompere l’ennesimo tabù – fatto di scetticismo, allontanamento e malcelato senso di superiorità morale – che divide il mondo laico da quello cristiano e che tanti danni sta facendo alla società occidentale contemporanea. Dopo l’appello per una Chiesa “povera e per i poveri”, il momento di sconcertante silenzio e preghiera imposto ai fedeli riuniti in piazza San Pietro subito dopo la sua elezione e il grande digiuno per la pace in Siria, in Medio Oriente e nel mondo, il pontefice fa quello che il suo titolo impone: getta un ponte.
Diretto questa volta verso il mondo laico, semi ateistico di chi si pregia di non cercare la fede, ma si dichiara “interessato dalla figura di Gesù, figlio di Maria e Giuseppe, ebreo della stirpe di Davide”. In altri tempi, e con altri Papi, sarebbe stato impensabile. Anche solo definire il Cristo “figlio di Giuseppe” e non “di Dio” sarebbe bastato (e avanzato) non solo per non ottenere risposta, ma probabilmente per essere scomunicati. E forse mandati a riflettere sopra un cumulo di fascine dato alle fiamme.
Francesco questo fatto non lo pone come discrimine. Da un certo punto di vista, non gli interessa. Non gli interessa per due motivi fondamentali: da una parte c’è il desiderio – che si è fatto anche necessità – di dialogare con quella porzione di mondo occidentale (forse la maggioranza) che non solo ignora la fede, ma la disprezza. In questo non rientra certo il Fondatore il quale, anzi, ritenendo di avere una linea diretta con il mondo che ci sovrasta, al limite è un osservatore scettico, ma di certo non un ideologo dell’odio anti-cristiano. Ma vi rientrano tutti coloro ai quali il Papa scrive davvero: disillusi, illusi, rancorosi, timorosi, ignoranti, ignavi. Come si diceva: il mondo occidentale.
Dall’altra parte perché il Papa può contare su un pontificato (quello che lo ha direttamente preceduto) che ha messo con forza nel terreno i paletti entro i quali la Chiesa e il suo primo pastore si muovono. Senza il discorso di Ratisbona, le udienze sui Padri della Chiesa del mercoledì, la Caritas in Veritate, la Spe Salvi e in parte la Lumen Fidei di Benedetto XVI tutto questo non sarebbe stato forse possibile. Un operato come quello di papa Bergoglio sarebbe finito nel mirino di tradizionalisti, conservatori e anche di tanti cattolici comuni che avrebbero avuto paura di avere, come capo supremo della Chiesa di Cristo, una sorta di sincretista impazzito interessato più alla teologia della liberazione che alla Dominus Iesus. Fortunatamente, così non è. Appunto perché Francesco non è un simpatico pazzerellone che gioca a chi è più popolare, ma un pontefice forte e coraggioso che ha intenzione di mettere in pratica tutti quegli aspetti del Concilio Vaticano II che ancora non si erano potuti mettere in primo piano per non sfaldare una comunità di credenti in preda a grandi cambiamenti.
Fede, speranza e carità. Benedetto XVI, Giovanni Paolo II e Francesco. Non è un caso, non è superstizione, non è follia (o forse sì, ma in quel caso me ne assumo la piena responsabilità e libero l’editore da future convocazioni da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede). Gli ultimi tre Papi hanno incarnato le tre virtù teologali svelandole a un mondo che non è più in grado di accettarne la potenza senza vederne l’incarnato. E la carità di Francesco è ovviamente più rumorosa, più colorata, più “bella” della fede di Benedetto XVI. Ma l’una senza l’altra sarebbe impensabile.
Scrive Elliot: “In un mondo di fuggiaschi, chi va nella direzione giusta sembra che sia lui a scappare. Il cristiano è colui che, andando controcorrente, corre incontro alla realtà”. Io non so quale sia la realtà del mondo in cui mi tocca vivere, e probabilmente non la conoscerò mai. Le parole del Papa nella lettera al Fondatore mi toccano però a un livello molto personale, sia quando scrive che “Dio perdona chi segue la propria coscienza” e sia quando dice che “Dio non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo… non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra, l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui”. Sono parole che garantiscono la speranza e la carità, incarnate nella fede.
L’unico neo di questa bellissima novità, ennesima, introdotta dal pontefice – ma non dimentichiamoci che Giovanni Paolo II telefonò a Bruno Vespa, a riprova che per tutti c’è speranza al mondo – è la chiusa dell’articolo con cui il Fondatore impreziosisce questo momento. Scrive Scalfari nel finale della sua introduzione/risposta a Francesco: “Nel nostro giornale di domani formulerò alcune riflessioni per approfondire i temi e portare avanti un dialogo che penso anch’io, come il Papa, sia utile ed anzi prezioso per i lettori, credenti in Gesù Cristo o in altre religioni o in nessuna, ma animati dal desiderio di conoscenza e dalla buona volontà di collaborare al bene comune”. Ecco, forse è un po’ troppo (almeno per i credenti). Anche se forse a parlare è solo l’invidia.