Camera con vista
Elogio dell’attore
Toni Servillo è il mattatore del nostro tempo, anche se non si cura di esserlo. Sexy, mostro di bravura con nonchalance, passa infaticabile da Goldoni a Eduardo alla sperimentazione musicale al cinema di denuncia, travalicando i ruoli. Ma del grande De Filippo ha disatteso la malinconia...
Se dovessimo cercare oggi fra gli attori italiani qualcuno in grado d’interpretare il ruolo del “mattatore”, che tanto è andato di moda a cavallo fra ‘800 e ‘900 e su su fino a noi con le ultime incarnazioni in Carmelo Bene, Gassman, Albertazzi, non vedrei migliore incarnazione che in Toni Servillo, perché Servillo è un mostro di bravura in scena, è intelligentissimo, non utilizza mai le parole a caso e ha quel tanto d’impostato, leggermente sprezzante e distaccato nella persona. E poi è infaticabile, e travalica ogni ruolo: è grande sullo schermo (anzi grandissimo) ma dice di amare soprattutto il teatro e che anzi il cinema lo fa quando gli avanza il tempo fra una tournée e l’altra. Non bastandosi come attore, salta con disinvoltura e con idee inconsuete – persino irriverenti – nei panni del regista (teatrale). Non è un uomo bello secondo la stereotipata immagine di bellezza maschile sancita dal divismo americano e dalle soap televisive, eppure è il più bello di tutti grazie a una carica erotica naturale – e da lui trascurata nella creazione dei personaggi come di se stesso, ma perciò ancora più potente – e grazie a una faccia che è una maschera capace di esprimere il fascino del dongiovanni sepolto nel grigiore del più incolore travet. Una faccia che sembra di pongo su spalle muscolari e abbastanza solide da sostenere energicamente le traballanti sorti del teatro come quelle diversamente fragili del nostro cinema. Non a caso il suo nome intero è Marco Antonio.
Però è un mattatore molto distante dai suoi predecessori. Innanzitutto non si cura di esserlo, lo è – insomma – suo malgrado e poi è un mattatore “impegnato” e questo è quasi un ossimoro. Se in teatro si sbizzarrisce, passando da Goldoni a Eduardo alla sperimentazione musicale, quando sceglie ruoli cinematografici è invece unidirezionale: gli piace chiaramente un certo cinema di denuncia, quello che oggi ha raccolto l’eredità del neorealismo sia pure declinato liberamente con aperture onirico-metafisiche che non dimenticano la lezione felliniana.
Forse perché si trova più a suo agio in palcoscenico, al cinema (almeno per ora) preferisce andare sul sicuro e affidarsi ai registi migliori e a lui congeniali, primo fra tutti Paolo Sorrentino naturalmente. Ma è nel teatro che investe la parte più ardita del temperamento e dove rischia di più. Teatro primo amore, da quando esordiva nell’avanguardia degli anni Settanta/Ottanta dal Teatro Studio di Caserta al gruppo Falso Movimento alla collaborazione con Leo e Perla alla fondazione di Teatri Uniti. Ora anche regista di scommesse importanti come una Trilogia della villeggiatura che rompe con la tradizione consacrata e investe il testo di un’attualizzazione più marcata, mi pare, di quanto sia stato tentato in precedenza e non tanto nella rilettura del testo quanto per la recitazione in contrasto stridente con l’etica, la gestualità, lo stile di comportamento del ‘700. Ma il risultato è convincente. Meno convincente semmai l’interpretazione di Eduardo (Le voci di dentro) dove in coppia vincente col fratello Beppe (vocalist degli strepitosi Avion Travel) spinge in modo eccessivo sul pedale del comico dimenticando la grande lezione del suo “maestro”, Eduardo De Filippo appunto, che sempre stemperava la comicità in una profonda tragicissima malinconia scomparsa quasi totalmente dalla messa in scena di questo recente spettacolo. Come se oggi il comico, anche nell’intelligenza di un regista e attore tanto fine, non potesse che farsi contaminare da un registro televisivo, di pronta presa sul pubblico, ma senza vera risonanza. Così pensavo delusissima uscendo dal teatro Argentina dove la platea era in delirio.
Il delirio che prende le folle quando vedono una star da vicino.