Dieci anni dopo, il nuovo, bellissimo album
La resurrezione di Bowie
“The Next Day” uscirà il 12 marzo, ma si può intanto ascoltare gratis su iTunes. «Sono qui, non sono moribondo» canta il Duca Bianco. E rinasce dalle proprie ceneri con brani già irrinunciabili
Quell’assordante silenzio, all’improvviso, è stato spazzato via da Where Are We Now? Malinconica ballata. Terribilmente bella. Una di quelle ballate (le sue) che ti lasciano senza fiato: come Quicksand, Life On Mars, Starman, Thursday’s Child… Dopo dieci anni di vuoto (dal 2003 dell’album Reality), il pieno della sua voce si è svelato quasi con pudore l’8 gennaio scorso, giorno del suo sessantaseiesimo compleanno, pedinato dal battito preciso della batteria, dalle carezze del pianoforte, dai contrappunti della chitarra elettrica, dal volo libero degli archi.
In tutti questi anni, David Bowie s’era camuffato da uomo qualunque: più volte paparazzato per le strade di New York e troppe volte vociferato in fin di vita dopo l’intervento chirurgico al cuore e il conseguente ritiro dalle scene. Meglio vivere nell’anonimato, piuttosto che fingere da artista/ombra di se stesso. Senonché due anni e mezzo fa, l’indifeso e vulnerabile ex Duca Bianco ha iniziato a pianificare in tutta segretezza The Next Day (Columbia/Sony Music, 14,99 euro), trentesimo disco in carriera che uscirà il 12 marzo ma che potete nel frattempo ascoltare gratis su iTunes.
Dopo aver lavorato su alcuni demotapes in un piccolo studio dell’East Village newyorkese e aver scritto in un pugno di mesi i testi delle canzoni, ha voluto accanto a sé Tony Visconti (già produttore di classici come Heroes, Scary Monsters e Young Americans), una fidata pattuglia di musicisti fra cui Earl Slick, Gerry Leonard e David Torn (chitarre), Gail Anne Dorsey (basso), Steve Elson (sax, clarinetto), Zachary Alford e Sterling Campbell (batteria), e nella sala d’incisione The Magic Shop ha pianificato la resurrezione artistica. È un mosaico del camaleontismo bowiano, The Next Day. Un’enciclopedia di se stesso che dopo essersi preannunciata con gli struggimenti di Where Are We Now? attraversa la polveredistelle (nel senso di Ziggy Stardust) fino a raggiungere schegge d’elettronica berlinese. Il tutto filtrato dal qui e adesso di un grande pensatore rock che ha avuto la forza e l’orgoglio di rinascere dalle proprie ceneri.
Here I am, not quite dying. Sono qui, per ora non muoio, canta ripetutamente/sarcasticamente nel pezzo che dà il titolo all’album: nervoso, elettrico, sibilante, con una serie di déjà vu sonori che vanno da Beauty And The Beast a DJ. Gocce di China Girl, invece, inumidiscono il funk di Dirty Boys innervato da scariche elettriche e dagli schiaffi jazz di un sax baritono, mentre The Stars (Are Out Tonight) è una ballata scossa dal rock che s’insinua tra Ziggy Stardust e Bob Dylan. L’abbraccio mortale di blues cibernetico e metal che scandisce Love Is Lost, contrasta col glam intriso di nostalgia che griffa Valentine’s Day. E poi, di nuovo, l’opposto: con la fusion incendiaria e il drum & bass di If You Can See Me marchiate a fuoco da un’apocalisse percussiva, e la patina psichedelica di I’d Rather Be High che col suo riff sinuoso di chitarra incoraggia paragoni con Tomorrow Never Knows dei Beatles.
E se il sax è la spina dorsale della granulosa e magmatica Boss Of Me, l’apparentemente più lieve Dancing Out In Space occhieggia a Modern Love (epoca Let’s Dance) ma soprattutto alle sonorità Motown. E dopo tanto e ottimo sentire, David Bowie trova addirittura la forza di mettersi in discussione e poi superarsi nei quattro pezzi conclusivi: How Does The Grass Grow? è un filo rosso che lega Heroes e Boys Keep Swinging con l’aggiunta di geniali “yah-yah-yah-yah” che citano Apache degli Shadows. (You Will) Set The World On Fire, è un viaggio nella memoria che lambisce gli anni Sessanta dei Kinks (You Really Got Me), i Settanta del glam rock (zona Aladdin Sane) e gli Ottanta dei Tin Machine (il gruppo che Bowie s’inventò a furor di decibel).
Glam più che mai è You Feel So Lonely You Could Die: crescendo melodrammatico che tocca Rock’n’Roll Suicide e Drive-In-Saturday per poi svaporare negli inconfondibili rintocchi di Five Years. Un crooning che affascina e inquieta, nello stile di Scott Walker, scandisce infine la nudità alla The Bewlay Brothers di Heat. «Sono un profeta, ma sono anche un traditore», canta Bowie. L’abbiamo atteso dieci anni, ma ne è valsa la pena.