Marinella Petramala
A proposito di “Una lingua per cantare”

Poesia da cantare

Da Pasolini a Caproni, da De André a Calvino, Giulio Carlo Pantalei, cantautore e saggista, dedica uno studio molto approfondito alle commistioni tra poesia e canzone popolare nel secondo '900

Ha ha ha ha ha ha ha. In una scansione di sillabe onomatopeiche volte a comporre una fila di risate, Pier Paolo Pasolini ricostruisce un tempo in 7/8 in un bounce (un tempo jazz di velocità variabile) inserendosi appieno in una stagione fortunata del secolo scorso, che ha visto alcuni dei massimi autori italiani del Novecento – curiosi nei confronti delle altre arti, nonché della possibilità di commistione dei registri – scrivere versi d’autore per musica, segnando la nascita del cantautorato e della canzone impegnata in Italia. Del rapporto tra poeta, paroliere e cantautore si occupa Giulio Carlo Pantalei, cantautore, musicista, PhD in Italianistica presso le università di Roma Tre e Cambridge, in Una lingua per cantare. Gli scrittori italiani e la musica leggera (Einaudi, p. 320, € 24,00), considerando il momento di cesura segnato dal secondo dopoguerra agli anni Settanta.

Il poeta Giorgio Caproni, parte della commissione giudicatrice della prima edizione trasmessa in tv del festival della canzone italiana (1955), più tardi, in una lettera ad Achille Millo (1961), esprime l’importanza di «incidere la poesia su dischi», rimarcando la sua apertura nei confronti della divulgazione poetica su larga scala, in quanto «la poesia detta è qualcosa di più della poesia letta».

E così, in un contesto di riscoperta del folklore nonché l’interesse antropologico che seguì a partire dagli anni Cinquanta («Si trattava di ripescare la realtà e la verità prima del fascismo perché tutto era stato cancellato dal regime, la gente non sapeva cosa fosse il canto popolare») vennero scritti testi per musica definiti dalla poetica, lo stile e l’immaginario dei loro autori, senza perdere di vista il ricorso al corredo tecnico della poesia in particolare con le reinterpretazioni dei testi classici, per esempio S’i’ fosse foco di Fabrizio De André.

Non sempre questi scrittori avevano ricevuto una educazione musicale, come il già citato Pasolini che aveva studiato violino e pianoforte al liceo classico di Reggio Emilia (e, per questo, ‘libero’ nel traslare nuovi ritmi in versi, come nell’omaggio alla beguine, una rumba originaria dei Caraibi, nel ritrarre una serata romana a Trastevere) ma, piuttosto, come Calvino subivano il fascino evocativo della parola scritta, rapportando così i personaggi con la musica: in Un re in ascolto (poi libretto per Luciano Berio), un sovrano non lascia il trono per paura di essere deposto e, in seguito, solo la musica riesce a liberarlo dalla sua stasi mentale.

Si tratta di composizioni connesse anche alla poliedricità di ascolto degli autori, come in Moravia, il quale non solo offre sostegno teorico al progetto dell’attrice Laura Betti, che introduce la canzone intellettuale in Italia, ma mette anche a punto una scrittura vicina al linguaggio del jazz, genere di cui era appassionato, come in Amore vuol dire mentire: «Nello jazz si fondono felicemente la mentalità primitiva, alogica, irrazionale e magica africana e quella della civiltà modernissima, energica, razionale e ottimista che a suo tempo trovò espressione nei versi di Walt Whitman».

Secondo Pantalei, le radici del cantautorato sono da sì ricercarsi nella arte poetica, ma bisogna anche considerare che la musica ha la capacità di sostenere e rinforzare ciò che nella parola è già esplicito: «Una storia sottovalutata da entrambe le parti nei decenni come fosse “letteratura leggera” per musica leggera, a volerla racchiudere in un aforisma, su cui ancora si è detto poco e spesso male. È forse arrivato il momento di metterla bene a fuoco e raccontarla».

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