Alessandro Agostinelli
Un autore da rileggere

L’America di Hirschman

Ritratto di Jack Hirschman, il poeta scomparso nel 2021 che ha raccontato un'America autentica, oggi irriconoscibile sotto i colpi dei gangster al potere

Viviamo tempi bizzarri. La cosiddetta “maggiore democrazia mondiale” sembra essere in mano a persone che hanno più la sagoma dei pistoleri nei vecchi film western, invece che il profilo di riflessive personalità al servizio della cosa pubblica. Per questo, in tempi così difficili, potrebbe essere utile ricordare un America diversa da quella che va in scena ogni giorno sui palcoscenici mediatici.

Nel 2006 fu nominato poeta laureato di San Francisco, cioè incoronato poeta ufficiale della città californiana. Aveva una storia d’amore con la poetessa scandinava Agneta Falk, una vita di affetto ed esercizio poetico insieme. Jack Hirschman aveva una specie di umanità vigile e aperta. E se oggi fosse stato vivo avrebbe parlato e scritto con saggezza e con forza contro la banalizzazione e la gangsterizzazione del discorso politico agito da Trump e da Musk.

I suoi baffi coprivano in parte la mancanza di molti denti, ma quando sorrideva tutto era chiaro e splendente. Mi piace ricordare questo amico americano, fatto di una pasta differente da quella che va per la maggiore oggi negli Stati Uniti.

Intanto, tutti quelli che l’hanno conosciuto vi diranno che è stato il professore di Jim Morrison all’università della California, ma Jack Hirschman è stato soprattutto, per tutta la durata della sua esistenza, un eccelso poeta. Ha avuto una coda di fama anche in Italia grazie a Multimedia Edizioni. E proprio in Italia, all’inizio dei 2000 ho avuto la fortuna di leggere insieme a lui per due anni consecutivi a un vecchio festival che si teneva a Livorno, confidando sull’accompagnamento di bravi jazzisti liguri e toscani.

Jack Hirschman è stato un uomo dritto. Ha saputo scrivere negli anni della beat generation (che ha sempre definito una “pseudo-rivoluzione borghese”) fuori da quel giogo, trovando piuttosto fari stilistici in Walt Whitman e Ezra Pound. Al pari di quest’ultimo ha messo insieme tanti linguaggi differenti nei suoi poemi, come negli Arcani che sono stati forse la punta più avanzata della sua ricerca: dal surrealismo alla cultura ebraica newyorkese, dallo yiddish alla cabala, dalle associazioni mentali ai riflessi fonici fino alle invenzioni lessicali. E dentro a questo ribollire di esperienze razionali messe in poesia c’erano, a volte, dei passaggi totalmente lirici, come il finale de L’Arcano di Pristina, che a rileggerlo adesso pare quasi premonitore: «Ritorno a ieri anche se domani/ nasce Lenin. Non si va avanti/ Sono spinto indietro dagli spari/ Bombe seminate intorno Columbine. Corpi/ che cadono, cadono, giovani corpi morti/ non così a caso./ Kosovari che fuggono, studenti dispersi/ tra la lezione di storia sull’anniversario/ della nascita di Hitler./ Colpiti alla nuca/ nel villaggio di Pec, a Columbine/ o dall’alto./ Una volta conoscevo una ragazza chiamata Columbine/ sensibile come carta fatta a mano/ sulla quale qualsiasi poesia vorrebbe essere composta./ Indietreggiare di due passi senza averne fatto/ neanche uno in avanti, da leone o da formica./ Una volta conoscevo una città chiamata Pristina».

Jack Hirschman nacque nel Bronx nel 1933. Tra il 1951 e il 1959 studiò al College di New York e si laureò alla Indian University, con una tesi su Joyce. Nel 1953 inviò alcuni suoi racconti a Hemigway che al tempo era a Finca Vija a Cuba. E il grande scrittore scrisse al ragazzo di proseguire a scrivere, suggerendogli di leggere Flaubert. Dal 1961 al 1966 insegnò alla UCLA dove fra i suoi studenti ebbe Jim Morrison – come abbiamo detto – che Jack avvia alla poesia. Nel 1966, dopo un viaggio in Europa e la sua protesta contro la guerra del Vietnam, venne licenziato dall’università. Rimase a vivere in California, a Venice e poi si spostò nel quartiere di North Beach, a San Francisco. Qui resterà, con vari viaggi in tutto il mondo e soprattutto in Italia, fino alla sua morte, avvenuta nel 2021.

L’influenza di Hirschman sulla poesia americana contemporanea è, per quello che mi riguarda, insondabile. Certamente è stata una voce fuori dal coro di ogni possibile scuola o gruppo o movimento poetico del Novecento. Il suo impegno politico nel Labor Party americano, la sua radicalità sociale contro tutte le forme di potere costituite e la sua ingenua osservanza della sincerità lo hanno portato a un percorso solitario che non molti hanno battuto. E anche una certa ritrosia a parlare del discorso poetico in sé come riflessione letteraria lo hanno tenuto distante da possibili generazioni di adepti o figliocci. Per lui, nelle relazioni sociali contava l’atto poetico del dire, il farsi materia e azione (anche politica) della parola.

È stato anche un instancabile traduttore negli Stati Uniti di autori importanti come Majakovskij, Pasolini, Celan, Neruda, Char, Mallarmé e altri. Nel 1965 curò e tradusse un’opera antologica di Antonin Artaud per City Lights Books, libro che avrà un’influenza potente su tanti artisti dei Sessanta e dei Settanta, compresi Julian Beck e Judith Malina del The Living Theater (si scrive theater all’americana, non theatre all’inglese, come è scritto sbagliato anche su wikipedia e altri siti web…).

Il suo rapporto con l’Italia è stato lungo e prolifico, prima in Veneto, poi a Salerno dove trovò una sorta di “casa italiana” da Sergio Iagulli. Lì, presso Casa della Poesia di Baronissi sono stati pubblicati tutti i titoli italiani di Hirschman che oggi restano come testimonianza di un valore poetico altissimo e come opera seminale per tutti coloro che hanno premura del rapporto tra poesia in italiano e poesia in american-english.

 

Facebooktwitterlinkedin