Su "Dries. I giorni del pensiero cagnolino”
Cuore di cane
Vittorio Zambardino ha scritto un libro che per metà è un trattato di filosofia quotidiana e metà un'elegia per il suo cane, Dries. Che cosa significa dialogare con un cane?
Che cosa è l’amore per un cane? Per il tuo cane? Impossibile darne una definizione. O meglio, si finisce per darla, una spiegazione, ma soltanto da un punto di vista umano. Non possiamo evadere dal nostro linguaggio e dalla nostra cultura. «La distanza è incolmabile, il ponte fra noi e loro non resta che wishful thinking, come l’arcobaleno sul quale dovremmo incontrarci una volta morti, come l’angelo con la coda, come il paradiso dove ci aspettano tutti i nostri cani». E dunque c’è dell’altro. Il cane diventa «nella mente dell’umano un’esistenza preziosa perché garantisce l’esercizio quotidiano di un amore che non ha bisogno di affondare nelle sabbie mobili del desiderio… noi affidiamo al cane sentimenti come crediti su un conto invisibile… un cagnolino in fondo alla mente, che sta lì come nel quadro che rappresenti l’essere vivi: un orologio che segna lo scorrere del tempo, la figura dei figli, delle persone amate (vive e morte), i luoghi amati…».
Lo definisce un diario un po’ caotico, Vittorio Zambardino, questo suo libro: Dries. I giorni del pensiero cagnolino (150 pagine edite da Luca Sossella, 12 euro). Pagine piene di tante cose, di emozioni e di passioni, un quaderno di dolore e di amore. E di pippe mentali? Perché non sarà soltanto una illusione questa alleanza di vita tra uomo e cane? Ma certo che lo è, risponde Zamba, cioè Zambardino, però è un lavoro a quattro mani, ci sei anche tu, cane, che produci insieme a me questa illusione, una bella illusione. E così l’autore prende in prestito i versi di una vecchia canzone di Ella Fitzgerald, It’s only a paper moon, che faceva: «È solo una luna di carta che naviga su un mare di cartone/ ma non sarà tutto finto se tu crederai in me». Per dire che «il cane crede in te, ti consegna la sua vita. Viviamo illusioni “vere”. Funzionali…».
Il protagonista del libro è dunque lui: Dries, come Dries Mertens, il piccolo, prolifico e simpatico calciatore belga del Napoli ai tempi di Sarri ed Ancelotti, detto Ciro – ma Ciro non si poteva, pareva brutto per quel parente che aveva lo stesso nome, mi confidò Zamba. Dries pesa otto chili, ha quattro zampette che lo posizionano a circa dieci centimetri da terra, forse è un incrocio di maltesi con yorkshire, o il prodotto di un bunga bunga tra maltesi e shitsu, cagnolini per la fantasia di George Lucas che li trasformò negli abitanti della Luna boscosa di Endor, gli Ewoks, in Guerre stellari. Questo universo fantascientifico deve essere una costante nella vita di Zambardino: uno dei suoi cani di un tempo si chiamava Ciubecca. In realtà, i protagonisti sono due: il piccolo cane ribelle, introverso con esplosioni di euforia, un bulletto che affronta i pitbull senza paura, e lui il giornalista e scrittore cresciuto al Fusaro, mentre io stavo a Pozzuoli, zone dei Campi Flegrei, la terra con le viscere di fuoco, la terra che trema e che getta nel panico i nostri familiari e gli amici, e mette l’angoscia più cupa addosso a noi che viviamo da tempo lontano da quei luoghi.
Sei anni di vita insieme, tra Dries e Vittorio, un tempo sufficiente per darsi del tu. Familiarità e frequentazione portano a scoprire il pensiero del cagnolino, perché il cagnolino è un mondo. Non ci sono presunzioni scientifiche (e per fortuna!) per spiegare. Né l’autore vuole far credere di avere un cane speciale. L’umano cerca soltanto di raccontare questa esperienza che lo ha cambiato profondamente. Per non spaventare il piccolo, Zamba non spara più botti, non va allo stadio, non urla quando Lukaku o McTominay fanno gol, non frequenta posti dove non prendano anche lui, Dries. Ma soprattutto «è vivendo in questo appartamento di periferia che lentamente il castello del dolore e della difficoltà di esistere si è smontato». Anche se «…non c’è nessuna consolazione, nessuna liberazione dal dolore, semmai un incontro col dolore, un andarvi incontro… verso il dolore del futuro, che è certo, e il ricordo del dolore del passato, che è stato… tanto le perdite non vengono rimpiazzate, resta là una cavità come per un dente estratto… Le cavità ci sono per essere riempite: di lacrime, di pensieri, di emozioni che sciolgono le pietre. I fantasmi vanno placati…». Non è un Nirvana che Zambardino non ha mai cercato ma è uno stato di anestesia dell’anima: «Qui si colloca il mio “amore” per te, questo è il punto di arrivo di mille uscite l’anno, cinque ore fuori con ogni tempo, i veterinari, le tolette, la ricerca di ogni spina e di ogni pallina di cardo…».
Primo caso di pensiero cagnolino: «Da dove sei andato via, di lì ritornerai, per cui ti aspetto dietro la porta». E se mi lasci in una casa che io, cagnolino, non conosco, mi metto dentro la valigia che odora di te, prima o poi tornerai a prenderla. Un altro caso di pensiero cagnolino: «Se sterpi e spine mi tormentano le zampe o la pancia, io mi metto a sedere e ti guardo, ti guardo, ti guardo. Capirai una buona volta che ho un problema che mi impedisce di camminare». Perché la base della loro lingua, della lingua dei cani, poggia sugli sguardi, gli occhi ti parlano.
Zambardino non aveva nessuna intenzione di prendersi un cane. Teneva alla sua libertà di boomer single e pensionato, trasferte al Maradona, viaggi e cene con amici, collaborazioni editoriali. «Nemmeno la versione tardiva della vita amorosa era poi così disperata». «Chi lo adotta?» fece la donna che aveva raccolto il piccoletto per strada e lo aveva portato sul prato. Zamba, Mister Impulso, rispose: «Me lo prendo».
Non era dunque, il nostro giornalista-canaro, un Umberto D. sull’orlo del suicidio che trova nel suo Flaik una ragione per vivere. Zambardino è uno che ha scelto di stare da solo in due camere e cucina tra la Prenestina e la Casilina, strade che attraversano quartieri complessi, fecondati dai burini laziali, come li chiamano i romanisti, abitati cioè da quelli arrivati nella capitale settanta e oltre anni fa (dalle Marche, dall’Abruzzo, dalla Campania) e dai loro eredi. Posti dove adesso prevale gente di continenti lontani che prega altri dèi, tra i Bangla venuti da Dacca e i tossici, tra i trans brasiliani e piccoli criminali. Più una comunità gay particolarmente attiva e i centri sociali che prima di Pasqua fanno la loro Via Frocis. Ambienti pasoliniani. Pasolini è ricordato in graffiti scoloriti, nelle foto appese ai muri dei locali. Anche da Necci, il cuore del Pigneto, come dice la pubblicità, dove il poeta andava a mangiare: «Oggi da Necci si va per il brunch, ci sono gli “hypster nervosi”, come li definiva il mio figlio fotogiornalista che non c’è più. Sono persone che hanno bisogno di prendere il caffè e mangiare la torta tenendo davanti il Macintosh di più recente uscita…». Non c’è comunità e nessun melting pot. Ogni gruppo sta per conto suo. E mentre qualche b&b ostenta bandiere arcobaleno, quasi ci si vergogna che lì a due passi c’è il pratone della Casilina, quello spiazzo dove Carlo, il protagonista di Petrolio, faceva sesso osceno, brutale, omosessuale con Sandro, Sergio, Claudio, 2 mila lire a Fausto e 2 mila a Gustarello, una ventina in attesa del proprio turno dietro al montarozzo.
Cattivi pensieri attraversano la mente di Zamba: «Ogni tanto guardo i vecchietti miei coetanei che oziano in strada e mi chiedo: ma tu, con Pier Paolo ci sei stato? Tu che magari hai appena dato del frocio a quel ragazzino che è passato poco fa? Chissà se questo nascondimento del pratone non sia un ennesimo rigurgito di un perbenismo di sinistra…». Insomma sta bene dire che nel quartiere vive e prospera una cultura gay, ma, attenzione, si eviti di «citare la più potente scena di sesso omoerotico mai scritta nella letteratura italiana…». Detesta il buonismo, Zamba, così come non sopporta di mettere il guinzaglio a Dries. Odia la nostalgia e non ama Calcutta, vale a dire un certo tipo di volontariato anche se ora apprezza che si prende cura dei quattro zampe. Il suo credo radicale lo porta alle volte su posizioni controcorrente, scomode, urticanti.
Se lo prenda e lo porti a casa, si vede che è un uomo solo, le disse qualche signora. Solo sì, signora, ma non disperato. Perché poi Vittorio è uno che continua a leggere e a informarsi, che scrive sui social, sui giornali (ha una rubrica, Colpo di Zamba, sul Corriere del Mezzogiorno, in cui parla del Napoli). Lui è stato una sorta di rompighiaccio nel giornalismo digitale, uno che ha preso qualche iceberg nel suo navigare guardando oltre, maltrattato e applaudito nel suo lavoro sia quando inseguiva come cronista Maradona ai Mondiali del ’ 90 e lo vedeva palleggiare con un’arancia, sia quando si è occupato di sistemi editoriali, Internet e tutta quella roba che alla platea dei giornalisti di Repubblica (è stato lì che l’ho conosciuto alla fine degli anni Ottanta) sembrò indigesto. «Noi scriviamo per la carne a lesso» gli diceva Peppe D’Avanzo. Per mangiare carne per il brodo, non un filetto al pepe verde, non per sfoggiare l’arte.
Insomma, Dries non era il classico caso del cane che va in soccorso dell’umano depresso. Però «…non sospettavo che tenerti con me – scrive ancora Zamba rivolgendosi a Dries – avrebbe comportato l’accettazione di cicatrici e ferite che erano state messe a tacere e mi pesa dover ammettere che di te, di una presenza come la tua, avevo bisogno nella mia vita. Proprio come i sofferenti delle vite degli altri». Con un avvertimento a proposito di quella ferita insanabile: «Non considero il “noto lutto” come elemento centrale che tutto spiega di me, né, se parlo di dolore, alludo solo a quell’evento… Siamo in migliaia a essere orfani di figli in questo paese… continuiamo indecentemente a vivere la nostra vita lacerata… per il senso comune dovremmo essere morti di dolore e forse per un po’, in un angolo della mente, lo siamo… L’autocommiserazione sia messa fuori legge… Va tutto bene».
È che l’abbandono lo commuove. Anche da bambino voleva riparare il mondo. Più grandicello, per la verità, ha fatto anche brutte cose come rivela, vergognandosene, nel primo dei due proscritti: lanciare, ad esempio, i gattini appena nati contro un muro. Aveva visto anche uccidere il maiale con un coltellaccio, un’agonia lenta, gesti disumani con il padre che pregustava le salsicce. Maiali e altre bestie ne ha mangiato fino a ieri. Il suo “vegetarianesimo” è recente. Lo decise il giorno che portò a castrare Dries, anzi il giorno della sterilizzazione, parola asettica. Sono pagine intense di considerazioni su questo mondo feroce che si nutre del dolore e della morte altrui. Sembrano una poesia accorata. Confesso: mi concentravo su quelle righe e mi venivano i lucciconi. Ho avuto (e ho) cani anche io. Sarà stato che leggevo e ascoltavo nelle cuffie le tammorre di Enzo Avitabile. Mi ha colpito una domanda: chi muore prima fra noi due? «Io ho settantatré anni e tu solo sei. Bella gara: non vorrei lasciarti solo ma non posso certo augurarmi che tu muoia». Infatti nel proscritto n.2, Zamba immagina che il primo dicembre 2031, quando avrà ottant’anni, penserà di farsi un robocane. È un dialogo di fantascienza. La forza del robocane è che non muore. In vendita ci sono imitazioni del modello pilota del mercato, «prodotto dalla Casa del Cocomero Assaggiato, di proprietà di Elon Musk», scrive per tirare un calcio negli stinchi del sudafricano della Casa Bianca. Balto, il robocane in leasing, costerebbe 600 euro al mese. Ma lui insiste su Dries e l’assistente gli propone di liberare Dries della struttura fisica ormai debole e difettosa, (Dries nel 2031 avrebbe 13 anni) «e rendergli una vita potenzialmente infinita e a sua disposizione». E nel suo nuovo corpo, chiede Zamba, Dries conserverebbe i suoi sentimenti? La risposta è sì. «Quindi Dries mi vedrebbe morire… proverà dolore nel vedermi scomparire dalla sua vita… E non è possibile cancellare in lui il ricordo di me?». Sì. Allora fatelo, sottoscrivo il contratto. «Se potete cancellare il dolore della morte, anche a prezzo di farne un cane smemorato, fatelo. La morte esiste solo per chi se la ricorda».
Va tutto bene, Vittò.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.


