Paolo Ardovino
Gli Stati Uniti d'Europa

Pirandello e l’America

Un'intervista in cui Luigi Pirandello, cent'anni fa, parlava dell'influenza americana (esclusivamente economica) sulla nostra cultura "letta" da Antonio Gramsci. Un triangolo molto attuale...

La Repubblica titola in prima pagina “L’Europa siamo noi”, è il 16 marzo. Il giorno prima è successo qualcosa che per la storia quantomeno del nostro Paese è una novità. Una manifestazione con decine di migliaia di persone in piazza per portare avanti la costruzione di un’identità europea. Identità frammentata, eterogenea, multiculturale e ossimorica. Osservazioni fatte con livore dai detrattori e con orgoglio da chi ripudia un grande stato uniformato. Dalla manifestazione partita da Michele Serra (un rigurgito anacronistico del potere degli intellettuali nella società odierna?) è tornata la dicitura di Stati Uniti d’Europa. Se non fosse chiaro finora, l’Europa unita (unita del tutto, unita a metà, semiunità?) sta nascendo per reazione. “L’America siamo noi” è un altro titolo che comunque rispecchierebbe i movimenti geopolitici del vecchio continente, che oggi sta accelerando un processo per necessità di difesa dall’americanismo che minaccia di assoggettare l’intero Occidente (ancora di più?). La parola giusta sarebbe la gramsciana “egemonia”. Ci viene in soccorso proprio Antonio Gramsci, che sulla questione chiamava in causa a sua volta Luigi Pirandello, un secolo fa.

Lo scrittore e drammaturgo siciliano, in un’intervista con Corrado Alvaro del 1929 su “Italia letteraria”, si mostra critico sul valore dell’impatto della cultura americana: «L’americanismo ci sommerge. Credo che un nuovo faro di civiltà si sia acceso laggiù, e il denaro che il mondo è americano, e dietro al denaro corre il mondo di vita e la cultura. Ha una cultura l’America? Ha libri e costumi. I costumi sono la sua nuova letteratura, quella che penetra attraverso le porte più munite e difese». Senza attualizzazioni forzate, le parole di Pirandello filtrate da Gramsci risuonano affini agli editoriali che si possono leggere in queste settimane sui giornali. La società (occidentale? Dove si ferma l’Occidente?) di oggi è stata sommersa dall’americanismo e ha fatto in tempo a riemergere e ibridarsi. Quel che compone i nostri settori produttivi e consumistici, e il nostro immaginario e i nostri bisogni, è impregnato di americanismo. I trend oltre Atlantico arrivano col fascino del nuovo e finiscono per installarsi in maniera permanente. La breccia a stelle e strisce ancora non si è fatta spazio nei baluardi statuali delle società ma se è vero che il governo politico è sempre più politica economica, basta leggere i virgolettati qui sopra per una facile conclusione.

Ancora da Gramsci, nel quaderno 22 dal carcere ordinato secondo l’edizione Einaudi a cura di Valentino Gerratana, Luigi Pirandello quasi un secolo fa esatto individua, questo è curioso, l’ondata di americanismo non come elemento di ricostruzione di un mondo nuovo, non come una forza colonizzatrice che si fonde a un substrato. Ma come una forza che innesca reazione. Così lo scrittore: «Ciò che oggi si chiama americanismo è in grandissima parte un fenomeno di panico sociale, di dissoluzione, di disperazione dei vecchi strati che dal nuovo ordine saranno appunto schiacciati: sono in gran parte “reazione” incosciente e non ricostruzione: non è dagli strati “condannati” dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma dalla classe che crea le basi materiali di questo nuovo ordine e deve trovare il sistema di vita per far diventare “libertà” ciò che è oggi “necessità”».

Pirandello non considera la cultura americana – nel suo senso più ampio – in grado di arricchire quella europea. Il suo sguardo europeo comprende il modello Usa come modello solo economico e utilitaristico. Questo il passaggio cruciale dell’intervista di Pirandello: «Il problema non è se in America esista una nuova civiltà, una nuova cultura, e se queste nuove civiltà e cultura stiano invadendo l’Europa: se il problema dovesse porsi così, la risposta sarebbe facile: no, non esiste ecc., e anzi in America non si fa che rimasticare la vecchia cultura europea. Il problema è questo: se l’America, col peso implacabile della sua produzione economica, costringerà e sta già costringendo l’Europa a un rivolgimento della sua assise economica-sociale, che sarebbe avvenuto lo stesso ma con ritmo lento e che invece si sta creando un contraccolpo della “prepotenza” americana, se cioè si sta creando una trasformazione delle basi materiali della civiltà, che a lungo andare (e non molto lungo, perché nel periodo attuale tutto è più rapido che nei periodi passati) porterà a un travolgimento della civiltà stessa esistente e alla nascita di una nuova».

L’autore siciliano cita gli esempi di Berlino e Parigi, fotografie di cento anni fa: la prima capitale non sentirebbe differenze tra nuova e vecchia Europa perché «non offre resistenze» e l’altra, «dove esiste una struttura storica e artistica» in cui l’americanismo «stride come il belletto sulla vecchia faccia di una mondana». È la parte su cui si sofferma Gramsci, che riesce con lucidità a individuare nella classe media il vero perno capace di stabilire in che direzione andare. Per quanto rumore facciano oggi gli autocrati dell’innovazione, a determinare il cambiamento è la scelta che compie, in massa, la maggior parte della società. La chiosa è affidata all’intellettuale che scrive così dal carcere: «Non si tratta di una nuova civiltà, perché non muta il carattere delle classi fondamentali, ma di un prolungamento ed intensificazione della civiltà europea, che ha però assunto determinati caratteri nell’ambiente americano. L’osservazione del Pirandello sulla opposizione che l’americanismo trova a Parigi e sull’accoglienza immediata che trova invece a Berlino, prova appunto la non differenza di qualità, ma di grado. A Berlino le classi medie erano state già rovinate dalla guerra e dall’inflazione e l’industria germanica era di un grado superiore a quella francese. Le classi medie / francesi invece non subirono né le crisi (occasionali) come l’inflazione tedesca, né una crisi organica molto più rapida della normale per l’introduzione e la diffusione (improvvisa) di un nuovo metodo di produzione. Perciò è giusto che l’americanismo a Parigi sia come un belletto, una superficiale moda straniera».

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