Luca Fortis
Letterature diverse

Parola di griot

Poeta, musicista, autore di composizioni slam e cultore delle tradizioni griot: incontro con Jhonel, uno degli artisti più importanti del Niger. Sempre tra cultura e impegno, tra passato e futuro

Nell’ambito degli appuntamenti sulla letteratura dei paesi africani, in collaborazione con i professori di africanistica dell’Università Orientale di Napoli, nel mese di marzo abbiamo intervistato Jhonel, un artista del Niger, paese saheliano dell’Africa Occidentale che vanta una lunga tradizione di griot e poeti. Spesso riprendendo i testi della tradizione orale dei griot della sua regione, Jhonel elabora testi di slam in lingua francese e in lingua Zarma .

Lo slam è una forma di poesia performativa che si distingue per il suo stile dinamico e interattivo. Originaria degli Stati Uniti, lo slam coinvolge poeti che recitano le loro opere in pubblico, spesso in competizioni.

Oltre a numerose incisioni di album, Jhonel ha pubblicato due antologie di testi con L’Harmattan (Parigi). Inoltre, ha fondato la Casa della Parola, uno spazio culturale e archivio in cui si raccolgono registrazioni degli ultimi griot genealogisti, oggi scomparsi nel paese e dei canti che un tempo cantavano le donne, anch’essi oggi quasi del tutto scomparsi. Jhonel è anche il promotore del Festival di slam e humor “FISH-Goni”, che si tiene annualmente a Niamey.

Questa intervista nasce da un dialogo tra Jhonel, il professor Andrea Brigaglia, che insegna Società e culture dell’Africa Subsahariana presso l’Università di Napoli L’Orientale, la professoressa Cristina Schiavone, docente di Lingua e traduzione francese presso l’Università degli Studi di Macerata e chi vi scrive. Jhonel era a Napoli per un incontro organizzato presso l’Orientale di Napoli  dal titolo L’art poétique de Jhonel: Slam et engagement social.

Mi parla della figura del griot in Niger?

Il griot, da noi, è colui che si occupa della genealogia o della storia delle famiglie, il guardiano della memoria familiare. A Liboré, che si trova a 15 chilometri da Niamey, la capitale del Niger, si andava per apprendere questa tradizione. Lì si trovava l’ultima Dudal, la scuola dei griot. Il padre griot trasmetteva ai giovani griot il suo sapere. Tra questi giovani, alcuni sarebbero diventati genealogisti, mentre altri avrebbero appreso le storie. Oggi i Dudal non esistono più e l’ultimo griot genealogista della tradizione songhai/djerma è purtroppo morto, interrompendo così la catena di trasmissione. Esistono ancora dei griot, ma la catena di trasmissione si è interrotta dopo la morte dell’ultimo griot genealogista di questa regione. Per questo io mi definisco un griot moderno.

Me ne parla?

Povengo da Liboré, l’ultimo villaggio in cui c’è stato l’ultimo Dudal. Pur non appartenendo a una famiglia di griot, ho sentito la loro influenza e le loro parole. Dato che non ci sono più griot che hanno appreso dagli ultimi maestri del Dudal, posso definirmi un griot moderno. Tuttavia, i griot attuali, pur non avendo nemmeno loro studiato al Dudal, non mi riconoscono come tale. Pensano che si sia griot solo per nascita, e non accettano una forma moderna di questa identità. Per loro, anche se la trasmissione del sapere attraverso il Dudal si è interrotta, la tradizione non può cambiare. Ecco perché mi faccio chiamare il figlio della parola: perché Liboré è immersa nella parola. Sono cresciuto immerso nelle parole, sono di fatto un figlio delle parole sentite dai griot. Questa definizione la accettano anche i griot di oggi. Tuttavia, tengo alla definizione di griot moderno, perché per me ha un significato profondo. Quando si parla di Liborè, si pensa subito ai griot. Tutti i grandi griot sono passati da qui.

Essendosi interrotta la catena di trasmissione e non essendoci più griot genealogisti, comunque anche chi si definisce griot, non è più il griot di un tempo, che ne pensa?

Come in altri paesi, anche in Niger l’incontro con l’Islam ha progressivamente modificato molte tradizioni pre-islamiche. I griot erano considerati una casta: tramandavano e raccontavano le storie delle famiglie, sia quelle positive che quelle negative. Tuttavia, la religione ha gradualmente imposto che si potesse lodare solo Dio, non la storia delle famiglie. Questo ha trasformato la tradizione e ha portato alla diminuzione dei griot. In passato, i griot venivano mantenuti dalla società, il loro ruolo era quello di trasmettere le memorie delle famiglie nobili. Per vivere, per nutrire ed educare i propri figli, i griot potevano prendere ciò di cui avevano bisogno anche nelle case dei nobili, senza dover chiedere. Oggi, invece, devono lavorare, perché le persone hanno già i loro problemi economici e non possono più permettersi di sostenere anche le famiglie dei griot. Anche per questo, la tradizione è andata progressivamente scomparendo.

Utilizza prevalentemente la lingua francese, mentre i griot del Niger usavano lingue locali come lo zarma, l’hausa, il pulaar e le altre lingue nazionali. Come mai questa scelta?

Oggi, pur utilizzando anche lo zarma e l’hausa, faccio slam in gran parte in francese. All’inizio era l’inverso, per farmi ascoltare dalle comunità locali, utilizzavo la mia lingua materna, lo zarma. Ma visto che non tutti lo parlano, ho cercato una lingua franca che capissero tutti. Dal momento che sono seguito in molti paesi africani, ho continuato prevalentemente con il francese, visto che dà accesso a un pubblico molto più vasto.

La pratica dello slam, come si fonde con la tradizione dei griot?

Da sempre ho adottato la tecnica dei griot. Solamente anni dopo mi hanno detto che quello che facevo era dello slam. Durante un festival che si chiama FIMA (Festival de la Mode Africaine), che si tiene ogni due anni in Niger, partecipavo con la mia orchestra. All’epoca cantavo e facevo del rap. Il giorno del concerto l’Orchestra non si presentò all’ora prestabilita. Essendo i musicisti in ritardo, quando mi hanno chiamato sul palco non sapevo cosa fare. Per fortuna avevo un testo molto intimo, che avevo sempre tenuto per me, e per istinto l’ho recitato. Il pubblico è impazzito e mi ha chiesto di ripeterlo. Lo avevano amato a tal punto che mi spinsero a leggere anche altri pezzi del genere, versi che avevo sempre tenuto per me. Al festival c’erano molti francesi che sono venuti a dirmi che ero uno “slameur”. Io non sapevo cosa fosse. Mi spiegarono che, per capire cosa fosse, dovevo ascoltare Abdel Malik. Mi sono subito innamorato della sua arte e ho così scoperto lo slam. Ho sentito che mi rispecchiavo in esso. Dopo anni che cantavo e facevo rap, di colpo il pubblico del Niger mi seguiva di più e mi invitavano per fare slam.

La famiglia non ha capito il suo lavoro, me ne parla?

Non è stato facile per loro. Appartengo a una famiglia nobile, immigrata dal Niger alla Costa d’Avorio, mio padre era un imam. Per loro, tutto ciò che è arte e musica, non è fatto per un nobile, né per la famiglia di un imam. Sono i griot che cantano per i nobili, non viceversa. Mio padre non ha mai amato il mio lavoro, fino alla sua morte. Mia madre, alla fine, ha compreso. Ma ci è voluto molto tempo, soprattutto grazie al successo che ho avuto. Solo allora la famiglia ha cominciato ad accettare.

Quando ha capito che voleva fare l’artista?

Penso che il proibito mi abbia fatalmente attratto verso l’arte. La mia famiglia, alla fine, mi propose di tornare da solo in Niger, in modo tale che, se avessi voluto fare l’artista, almeno non lo avrei fatto in Costa d’Avorio, dove mio padre era imam. Perché, per la sua immagine di imam, non era bello avere un figlio musicista accanto. Così mi sono ritrovato a sedici anni in Niger, libero di vivere la mia vita. Alla fine la mia famiglia mi ha comunque dato uno spazio per fare arte, anche se lontano da loro e quindi mi sono dedicato ad essa. Pur non avendo avuto da subito un attenzione per le tematiche sociali, comunque da allora ho dedicato tutte le mie energie all’arte. L’impegno sociale nel mio lavoro è cominciato nel 2003 con un album che ho chiamato Chef d’État. Nessuno ha voluto suonare questo album con me, perché pensavano che fossi troppo giovane per un testo così impegnato, in cui denunciavo situazioni molto gravi. Ma per me era così importante parlare della giustizia sociale che non potevo trattenermi. Gli altri, pur pensando che quello che cantavo fosse vero, avevano paura delle ripercussioni. Purtroppo, capito che non me lo avrebbero fatto recitare sul palco per paura, il testo rimase stampato nel mio cuore, ma non potei mai cantarlo sul palco. Speravo però che un giorno sarei stato abbastanza forte e conosciuto per poter pronunciare quelle parole. Cosa che, per fortuna, è avvenuta.

Mi parla delle due pubblicazioni che ha fatto in Francia?

La prima si intitola Corte comune. Sono partito da una casa nel mio paese per parlare all’Africa e al mondo. Parto dal dire cosa non va a casa mia, perché partendo da lì, poi siposso parlare al resto del mondo e riflettere su cosa non va. Vi sono molti messaggi d’amore e di pace, ma anche molta denuncia contro la corruzione e l’ingiustizia. La seconda pubblicazione si chiama In ogni caso, non sono altro che dei poveri ed è una riflessione sul fatto che, fino a quando non accettiamo ciò che siamo, non possiamo andare avanti. Fino a quando non accettiamo che ci sono orrori che vanno riparati e ferite che vanno guarite, non possiamo guardare al futuro. Parlo al mondo intero, affinché superino i limiti, le barriere tra gli esseri umani. Parlo a più comunità: quando parlo di povertà, non si tratta di povertà economica, ma spirituale. Una povertà che impedisce alle persone di prendersi per mano perché in fondo noi tutti abbiamo paura di incontrare l’altro, di tendergli la mano. Paura di soffrire. Quando dovremmo comprendere che il senso della vita è incontrare l’altro, quindi tanto vale farlo e vedere cosa accade, senza spaventarsi per la diversità dell’altro. Sono questi i limiti che bisogna superare per avere un mondo migliore.

Ha dei modelli stilistici?

Ho molto amato un poeta del Niger che si chiamava Abdoulaye Mamani. Nei miei scritti mi do molta libertà stilistica. Quello che mi importa è il messaggio, non tanto il rispettare dei canoni stilistici predefiniti. Sicuramente sono stato influenzato da scrittori come Albert Camus ed Émile Zola, scrittori che ho letto da giovanissimo, perché mio zio lasciava i loro libri in giro per la casa. Io li leggevo avidamente, giorno e notte. Sono autori che sanno creare immagini, un po’ come la mia lingua, lo zarma. Uso sia versi tradizionali che liberi, ma preferisco i liberi, con ritmi molto sostenuti. Uso anche allitterazioni e rime, ma non sono sempre necessarie.

Che rapporto ha con la musica?

Sono assolutamente onnivoro quando si parla di musica. Tornando a come le proibizioni finiscano fatalmente per attrarre le persone, a casa mia la musica era proibita. Ecco perché, quando uscivo di casa e sentivo la musica, fatalmente mi fermavo ad ascoltarla. Oggi ascolto veramente di tutto.

Mi parli del Festival FISH-Goni? 

È nato nel 2012 con l’obiettivo di affrontare i problemi della nostra società, nella speranza di far riflettere le persone attraverso l’arte. Da quando abbiamo iniziato in Niger, il festival ha avuto un tale successo che altri paesi hanno voluto ospitarlo. Oggi esiste anche in Mali, Mauritania, Senegal e Guinea. Si tratta di un festival importante, perché ci permette di riflettere sul concetto di sviluppo. Mi chiedo sempre se esista un solo tipo di sviluppo. Questa è una questione fondamentale per me. Se seguiamo un unico modello di sviluppo, dobbiamo chiederci cosa rischiamo di perdere della nostra cultura. Allo stesso tempo, è necessario domandarsi se inseguire un’unica forma di sviluppo sia davvero la scelta giusta. Se invece vogliamo creare un modello nostro, dobbiamo capire cosa conservare e cosa invece cambiare.

Come trovare un buon equilibrio tra sviluppo, economia e tradizione?

È essenziale creare spazi in cui ognuno possa esprimersi liberamente. Non dimenticherò mai una telefonata ricevuta durante una conferenza radiofonica, anni fa. Un uomo nomade ci disse: “Ci stancate con questo sviluppo. Sono un nomade, non ho una patria fissa, mi sposto da un paese all’altro. Mi hanno detto che sono del Niger, così sono rimasto in Niger con la mia famiglia. Mi hanno detto di mandare i miei figli a scuola, così li ho iscritti. Ora mi dicono che devo pagare per la loro istruzione. A poco a poco, sto vendendo tutti i miei beni per permettere loro di studiare. Mi chiedono di comprare una televisione, di mettere l’elettricità in casa. Ma la cosa peggiore è che ora non ho più un posto dove nutrire il mio gregge. Durante la stagione secca, non posso più migrare attraversando la frontiera per seguire le precipitazioni. Quindi non capisco proprio di quale sviluppo parlate.” Mentre parlava, alcuni fra i relatori della conferenza radiofonica si sono messi a piangere. Non si aspettavano una testimonianza così toccante. Queste sono le questioni che vogliamo affrontare. Ne parliamo nelle scuole, nelle università, nelle radio, con traduttori nelle varie lingue locali. Organizziamo anche concerti e gare di slam.

Avete fondato anche un Ong, che fate?

Abbiamo fondato una Ong, grazie al supporto e al finanziamento di un’Ong olandese. Ci occupiamo di progetti per migranti interni africani e persone con disabilità, alcune delle quali sono diventate slammeur.

Mi parli della Maison de la Parole?

La Casa della Parola è uno spazio artistico che abbiamo creato in onore della parola, un elemento centrale nella cultura dei griot di Liboré. Si tratta principalmente di un archivio in cui abbiamo raccolto numerose registrazioni degli ultimi griot e delle canzoni che le donne cantavano durante i matrimoni, nei riti e mentre andavano a fare il bucato. Questo materiale è preziosissimo e lo abbiamo raccolto nel corso degli anni.

Come lo avete raccolto?

Principalmente grazie all’aiuto dell’antropologa svizzera Sandra Bornand, che ha registrato per anni l’ultimo griot genealogista prima che morisse. Inoltre, da quando si è sparsa la voce che abbiamo un archivio, molte persone ci portano registrazioni e perfino vecchi strumenti musicali.

Tutti possono fruire del materiale che avete archiviato?

Chi viene al centro può ascoltare alcune registrazioni attraverso dei computer, ma vi è una parte che tocca tematiche troppo complesse, che preferiamo siano ascoltate solo dagli studiosi che ci vengono a trovare. La società di oggi non è pronta ad affrontare alcuni temi, quindi abbiamo selezionato il materiale accessibile a tutti e quello riservato solo agli studiosi. Tra le registrazioni, abbiamo reso accessibili quelle che parlano di genealogie, dei racconti e delle canzoni ormai scomparse che cantavano le donne. Purtroppo, oggi, a causa di alcuni estremismi religiosi, le donne non cantano più. Alcune di queste canzoni venivano cantate durante i matrimoni, altre erano canzoni di “insulto” per le quali le donne erano famose. Si cantavano in una speciale occasione, chiamata marcanda, che veniva organizzata quando un uomo prendeva in sposa una seconda moglie. Allora le donne già sposate del villaggio si riunivano e quelle che erano state sposate come prima moglie cantavano canzoni di sfottò contro quelle che erano state sposate come seconda moglie. Adesso il marcanda si tiene sempre più raramente e la memoria di queste canzoni si sta perdendo.

Fate anche formazione alla Casa della Parola?

Assolutamente sì, molte persone vengono per incontrarsi e per fare ricerca. Non offriamo solo formazione per gli studiosi, ma anche progetti sociali. Ad esempio, invitiamo gruppi di persone a confrontarsi, condividendo i propri punti di forza, ma anche le proprie debolezze, per ragionare collettivamente e trovare soluzioni attraverso i punti di forza. Per quanto riguarda l’archivio, abbiamo molte collaborazioni con università internazionali che portano studiosi da tutto il mondo a studiare le registrazioni. Anche artisti e scrittori possono venire in residenza. Cerchiamo di essere finanziariamente autonomi: per esempio, abbiamo delle vasche per la itticultura e una  produzione agricola, che vendiamo per finanziare la costruzione di nuove abitazioni destinate alle residenze. In questo modo, anche chi non ha molti soldi, sostenendo le spese del viaggio, può venire da noi senza spendere troppo. Alla fine chiediamo agli artisti di fare una restituzione artistica. Se l’artista è conosciuto, organizziamo un concerto con biglietto per finanziare altre residenze, altrimenti, se l’artista non è ancora noto, organizziamo noi un concerto gratuito.

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