Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Oscar da favola

La notte degli Oscar ha premiato una favola, "Anora". Mai come oggi l'America cerca di sfuggire la realtà. Anche a Hollywood. E così "The Brutalist" e “Emilia Pérez” sono finiti in secondo piano

L’America di Trump vuole le favole, perché le favole sono meglio della realtà.
Anora, la favola di Cenerentola riscritta dal regista Sean Baker che aveva già “rubato” la Palma d’oro a Cannes l’anno scorso, sbanca nella notte degli Oscar conquistando 5 statuette e le più pesanti: miglior film, migliore regia, migliore attrice protagonista (Mikey Madison), migliore sceneggiatura originale e miglior montaggio.

Grande sconfitta la pellicola del regista francese Jacques Audiard Emilia Pérez che dopo aver stabilito il record con 13 nomination, si aggiudica solo 2 Oscar per la migliore attrice non protagonista (Zoe Saldana, nella foto accanto al titolo) e la migliore canzone originale. Del resto perché premiare un musical che racconta la cruda realtà di un paese come il Messico, che fra poco perderà anche il diritto di dare il proprio nome al golfo atlantico e in cui il protagonista è un boss del narcotraffico che diventa donna?

Mai come in questa edizione le previsioni della vigilia sono state disattese. Inizialmente pareva che i giudici dell’Academy avessero scelto una strategia pilatesca per accontentare un po’ tutti, in linea con quanto avviene da anni al Dolby Theatre di Los Angeles. Ma poi a sorpresa è emersa invece una scelta chiara che poco aveva a che vedere coi pronostici.

Il super favorito si è rivelato un flop, il film molto bello dedicato al giovane Bob Dylan A complete unknown è risultato davvero un perfetto sconosciuto per i giurati e non ha ricevuto nemmeno un Oscar a fronte di 8 nomination, Conclave che ne aveva altrettante deve accontentarsi del premio alla migliore sceneggiatura non originale.

Una considerazione a parte per il film che a mio avviso avrebbe meritato l’Oscar: The Brutalist. La pellicola di Brady Corbet conquista il premio al miglior attore protagonista, lo straordinario Adrien Brody, e i riconoscimenti alla fotografia e alla colonna sonora, entrambi meritatissimi. Credo che le parole pronunciate da Brody siano la risposta migliore a quella America che preferisce le favole alla realtà. «Fare l’attore è un mestiere fragile, impari che puoi sempre ricominciare dall’inizio. I miei genitori mi hanno insegnato il rispetto e la gentilezza. Con questo personaggio racconto i drammi e le ripercussioni della guerra, dell’antisemitismo e del razzismo e prego per un mondo più felice e più inclusivo. Se il passato può insegnarci qualcosa, noi possiamo imparare che c’è sempre la speranza. Lottiamo per ciò che è giusto e amiamoci».

La realtà non si può chiudere fuori dalla porta, trova sempre una finestra aperta. Lo confermano gli Oscar al miglior film straniero, al miglior documentario e al migliore film di animazione. I’m still here, “Io sono ancora qui”, migliore film internazionale, è la pellicola brasiliana che racconta gli anni drammatici della dittatura militare e la storia vera della donna che ha lottato dopo la scomparsa del marito, interpretata dalla magnifica Fernanda Torres, che a mio parere avrebbe meritato l’Oscar ben più della “Pretty Woman” Mikey Madison. Peccato per Il seme del fico sacro, il bellissimo film del regista iraniano Mohammad Rasoulof, che avrebbe meritato la statuetta forse più di I’m still here. Miglior documentario (che sembra rispondere al vergognoso video trumpiano su Gaza), è No other land, scritto, diretto e prodotto da un collettivo israelo-palestinese.

Imperdibile. Infine il premio al miglior film di animazione è andato meritatamente a Flow. Un mondo da salvare, il primo film lettone candidato all’Oscar. Il protagonista è un gatto. In un mondo in cui gli umani sembrano scomparsi, gli animali che si rifugiano sulla nuova arca di Noè dovranno aiutarsi e imparare a superare le differenze e le diffidenze reciproche per sopravvivere nel nuovo mondo travolto dai cambiamenti climatici. Un’altra favola, certo, ma una favola che certamente a Trump non piace.

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