Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Le ruspe di Hebron

"No other land”, il documentario che ha vinto l'Oscar 2025, è un pugno nello stomaco. La testimonianza della realtà impossibile di Hebron, in Cisgiordania: una sequela di domande senza risposte

C’è un paese in cui le auto hanno due targhe: quelle con la targa gialla vanno dove vogliono, quelle con la targa verde no. Non è l’unica cosa strana che succede in quel paese: da anni quasi ogni giorno arriva un tizio che si chiama Ilan che urla e non si capisce perché e dietro di lui c’è una fila di ruspe, quelle gigantesche della ditta “Hitachi”, che si muovono lentamente e inesorabilmente. Le ruspe arrivano e senza motivo, perché un motivo non c’è, radono al suolo la casa del tuo vicino, o magari il recinto con le tue pecore o il pollaio con le tue galline. Una mattina tirano giù anche la scuola elementare dove vanno i tuoi bambini e da quel giorno non c’è più la scuola e i tuoi bambini guardano le macerie e scoppiano a piangere perché non ritrovano più i loro compagni e la loro maestra e tu non sai cosa fare.

No other land è il documentario di 95 minuti che ha vinto l’Oscar 2025, alla faccia di quanti l’hanno accusato di essere un manifesto antisemita. Prima dell’Oscar ha vinto tutti i premi che un documentario può conquistare, dal festival di Berlino a quello di New York, da Boston a Chicago, quando i suoi autori si presentano non c’è gara. I suoi autori sono un collettivo di coraggiosi, e mai aggettivo è stato più appropriato, guidato da due temerari che nel film sono semplicemente se stessi: il palestinese Basel Adra e il suo amico israeliano Yuval Abraham. Basel ha 29 anni, è avvocato, regista, sceneggiatore e montatore, Yuval ha trent’anni ed è giornalista, regista, sceneggiatore e montatore. Si sono conosciuti nel 2019 e hanno deciso di raccontare insieme al mondo ciò che avviene da anni nel villaggio di Masafer Yatta, uno dei tanti nel governatorato di Hebron in Cisgiordania, dove vive la famiglia di Basel e dove suo padre Nasser ha una pompa di benzina. Hanno girato ore e ore di video che a guardarli non ci si crede a tanta cattiveria inutile, visto che i contadini di Masafer Yatta non sono certo una minaccia per la sicurezza di Israele. Il documentario si ferma al settembre 2023, poi è successo quello che è successo ed è precipitato tutto, e la loro “piccola” storia è entrata dentro la grande tragedia che tutti conosciamo.

Cosa succede da anni nel governatorato di Hebron? Succede che la Corte suprema israeliana ha stabilito che quel territorio debba diventare un poligono di tiro e un’area di addestramento militare per l’esercito israeliano e perciò chi ci abita da generazioni – perché ci sono documenti che dimostrano che le famiglie palestinesi possiedono quella terra dal XIX secolo – semplicemente se ne deve andare perdendo tutto, di sua volontà o con le maniere forti non importa. Da anni i residenti palestinesi si sono appellati alla legge dimostrando che quella terra è la loro, che non ne esiste un’altra, hanno fatto ricorsi su ricorsi, ma la Corte suprema ha deciso, loro se ne devono andare. Perciò il solerte funzionario Ilan arriva ogni mattina con le ruspe Hitachi per demolire ciò che quella gente caparbia non si stanca di ricostruire.

Guardare No other land è come prendersi un pugno nello stomaco. E non perché documenti le stragi sanguinose della striscia di Gaza, ma perché mostra la banalità del male. Sappiamo che le immagini dell’orrore producono assuefazione, è dall’invasione russa dell’Ucraina che la televisione e la rete ci mostrano cose che noi umani non avremmo mai voluto vedere. Ma entrare nella storia filmata da Basel e Yuval vuol dire azzerare la distanza di sicurezza con cui guardiamo abitualmente le guerre “degli altri” e allora sì che arriva il nodo in gola.

C’è una bambina bionda, bionda come solo i bambini svedesi, che non capisce perché non c’è più la sua scuola e perché hanno sparato a suo fratello Harum che voleva solo impedire ai soldati di rubare il generatore elettrico della sua famiglia e adesso lui è tetraplegico, steso sul pavimento della grotta dove si sono rifugiati perché non hanno più una casa, con sua madre Shamia che fa quello che può e ringrazia i giornalisti delle tv straniere che vanno a filmare la sua agonia, tanto sa che niente potrà salvarlo. Harum ci metterà due anni a morire per le ferite e per l’incuria, l’ospedale non c’è e la bambina bionda non può capire perché. Ma viene da piangere anche guardando l’agnello bloccato sotto le macerie dell’ovile, per i colombi e le galline schiacciate dalle ruspe, quando i soldati israeliani tranciano il tubo che porta l’acqua dal pozzo e il pozzo lo chiudono con una colata di cemento e un vecchio urla che l’acqua è un diritto universale e che anche loro un tempo furono miseri ma non se lo ricordano più, i ragazzi e le ragazze belle con la tuta mimetica che puntano i fucili sui contadini di Masafer Yatta che non hanno più niente, tanto meno le armi per difendersi, come i poveri di tutto il mondo.

Eppure la gente del villaggio che ogni giorno scava tra le macerie delle demolizioni e tira fuori il frigo, o ciò che resta del frigo, e una sedia e un tappeto e pure un’altalena per far giocare i bambini visto che il campo giochi non c’è più, e vive accampata nelle grotte perché non ci sono più le case, quella gente che Basel e il suo amico israeliano Yuval filmano coi cellulari, invece di disperarsi spesso sorride e ripete che ci vuole pazienza, che loro resteranno in quella terra perché non ne hanno un’altra, che lì hanno vissuto i loro padri e i nonni e i trisavoli e che a resistere e a manifestare pacificamente e a raccontarlo al mondo, prima o poi le cose cambieranno. E anche loro potranno avere una vita normale, i loro bambini avranno una scuola e loro potranno pensare di farsi una famiglia. E un giorno le auto con le targhe verdi potranno circolare liberamente come quelle con le targhe gialle.

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