Diario di una spettatrice
Il dubbio di Simenon
Il regista Benoît Jacquot ha portato sul grande schermo “La morte di Belle" di Georges Simenon. Un vero omaggio allo scrittore (con un eccellente Guillaume Canet)
“Può capitare che un uomo, in casa propria, vada su e giù, faccia i gesti abituali, i gesti di tutti i giorni, con l’espressione distesa di chi è solo, e poi, alzando gli occhi all’improvviso, si accorga che le tende non sono state tirate e che qualcuno, da fuori, lo sta osservando.”
È l’incipit del romanzo di Georges Simenon La morte di Belle che ha ispirato il nuovo film di Benoît Jacquot Il caso Belle Steiner. Dico subito che libro e film si differenziano non poco, per ambientazione, trama e soprattutto finale. Ma in una cosa Jacquot si è mantenuto assolutamente fedele al romanzo: ha portato sul grande schermo una storia che ruota intorno all’ossessione di essere guardati da fuori, di essere giudicati, e per questo costretti dagli altri a essere qualcosa. Forse anche un assassino.
Ci sono diversi motivi per raccomandare la visione del film di Jacquot. Ovviamente il soggetto firmato da Simenon e sceneggiato dallo stesso regista. Ma a rendere intrigante la pellicola è la vicenda che ne ha condizionato la distribuzione: finora mai uscita in Francia, debutta curiosamente nelle sale italiane per via di una storia che viene svelata allo spettatore dall’annuncio che si legge per pochi istanti sullo schermo, tra l’ultima immagine e l’inizio dei titoli di coda. La frase è questa: «Il team realizzativo del film condanna ogni forma di molestie e aggressione, affermando la propria solidarietà alle vittime e alla possibilità che parlino di qualcosa che hanno taciuto per molto tempo». Cosa significa? L’annuncio è stato imposto dalla produzione dopo che il regista settantottenne è stato accusato l’anno scorso di violenza e molestie da almeno quattro attrici francesi e si trova da luglio in libertà vigilata. Quindi succede che in questo caso, Il caso Belle Steiner, la cronaca si sovrappone alla fiction del romanzo e del film che lo racconta.
Come sempre nei libri di quel gran genio di Simenon, la storia in sé è fin troppo semplice. C’è una cittadina della provincia francese e c’è una coppia di quarantenni come tanti, lui insegna matematica al liceo Georges Simenon (eh!) e lei ha un negozio di ottica. Ma c’è qualcosa di unico nel rapporto tra Pierre (interpretato da un grandissimo Guillaume Canet) e Cléa (Charlotte Gainsbourg) e che lo spettatore scoprirà a poco a poco: la complicità, una complicità più forte dei comportamenti sessualmente disinvolti di entrambi.
La coppia ospita nella sua villetta la figlia della migliore amica di Cléa, Belle, adolescente attraente e disinibita, e il regista sceglie di attualizzare il racconto di Simenon (scritto negli anni ’50) introducendo le foto fatte coi cellulari e gli outfit di Belle su TikTok. Succede che in una notte di pioggia scrosciante in cui Cléa è da amici e Pierre è chiuso nel suo studiolo/sottoscala a fumare cigarilli e a scervellarsi su un’equazione chilometrica, in quella notte uguale a tante la ragazza viene strangolata nella sua camera. È ovvio che la polizia – e con la polizia i vicini di casa, gli studenti del liceo, i giornalisti, gli anonimi autori di telefonate notturne, persino gli amici – sospettino che il colpevole sia l’unico presente sulla scena del crimine, l’ultimo che ha visto Belle viva, appena rientrata dal cinema.
E qui occorre spendere qualche parola sull’interpretazione magistrale di Canet che dà vita a un uomo apparentemente gelido e anaffettivo, con lo sguardo perso e la mente ossessionata dai calcoli matematici e che tuttavia sbircia a luce spenta, rintanato nel suo sgabuzzino, la vicina di casa che si spoglia in bagno e che pare farlo sapendo che lui la sta guardando. Pierre abita lo spazio in cui vive come noi ci rannicchiamo a letto, il suo corpo è contratto mentre lui è apatico come nel dormiveglia, non proclamerà la sua innocenza, non urlerà per dimostrarla, si limiterà a ripetere agli inquirenti “stavo dormendo, non ho sentito niente”, la morte di Belle non lo riguarda, lui è solo una vittima dello sguardo di chi lo giudica. E alla fine gli inquirenti – e con loro la giudice istruttore che lo sottopone a un serrato e interminabile interrogatorio nel tentativo di svelare gli aspetti più oscuri della sua personalità, incluse le fantasie sessuali – gli crederanno.
Non posso raccontare la scena conclusiva del film che in modo sibillino suggerisce il dubbio sulla colpevolezza di Pierre, anche perché chi ha letto il romanzo sa che Simenon prevedeva un finale ben più esplicito. Dico solamente che l’ultima pellicola di Jacquot si insinua nella mente dello spettatore nella forma inquietante e insieme ipnotica di un racconto fatto nel dormiveglia, quando è difficile distinguere la finzione dalla realtà.
«La teoria della probabilità deriva dal gioco. Giochiamo a calcolare e la sfida è individuare un punto fermo per trovare finalmente un equilibrio», dice Pierre al poliziotto che lo interroga. Quel punto di equilibrio che probabilmente Jacquot ha cercato nonostante tutto, regalandoci un film che è la quintessenza di Simenon.


