Arturo Belluardo
A proposito de “La notte dei ricordi”

Parole e responsabilità

Hora Aboav, con Annalisa Comes, analizza il dolore e la memoria nell'identità (e nelle lingua) ebraica. Un universo indispensabile per attraversare il dolore e il passato e incontrare l'altro da sé (anche nel ricordo del 7 ottobre)

È uscito per Castelvecchi questo libro particolare e struggente, La notte dei ricordi (p. 186, €20) di Hora Aboav e Annalisa Comes: viaggio nella memoria, viaggio nella coscienza, viaggio nel dolore della sopravvivenza, viaggio verso un anelito di luce, che distrugga il buio d’angoscia e di violenza, verso il tempo del kiddùsh, del rinnovamento.

Prima di raccontare del libro, è necessario parlare di Hora Aboav, della sua incessante opera di insegnamento dell’ebraico biblico e soprattutto del suo lavoro di cesello e di rivelazione sulle parole ebraiche, sulle radici delle parole ebraiche.

Ebraico lingua senza vocali, ebraico le cui parole sono tutte generate da terne di consonanti, le radici: a seconda della fonazione (semplifico) le radici assumono significati diversi, ma tutti interconnessi tra di loro. La meraviglia delle lettere ebraiche, attraverso le quali HaShem (uno dei nomi di Dio, che vuol dire appunto Il Nome) ha creato, secondo la mistica giudaica, l’universo, la meraviglia è proprio questa: che una parola creata da una radice ha contemporaneamente tutti i significati e i significanti che quella radice può assumere.

Faccio un esempio, tratto da un recente lavoro di Hora e che ci servirà da guida: la parola SERA עֶרֶב (‘Èrev) che ha le identiche lettere di MISCUGLIO עֵרֶב (‘Èrev). “Un miscuglio” scrive Hora “di luce e di buio nell’attesa della notte! Un contenitore benevolo che permette ancora i benefici del giorno e rende più accettabile la notte che sopraggiunge con i suoi luminari piuttosto che con le sue ombre. Non è la fine, ma la condizione consona all’insegnamento di quella sospensione del nuovo che è il nostro destino. La promessa di uno spazio e di un tempo festivo: una premessa generosa che si veste di abiti di festa o di raccoglimento per tutto il popolo ebraico: עֶרֶב חַג (‘Èrev chag).

וַיְהִי־עֶרֶב וַיְהִי־בֹקֶר יוֹם אֶחָד
(Vayhì-‘èrev vayhì-vòker yòm echàd).
«E fu sera e fu mattina, un giorno». (Genesi 1,5)

Forse è per questo motivo che un’altra parola importante si scrive con le stesse lettere: עָרֵב (‘Arèv) RESPONSABILE.”

Ecco, credo che questo insieme di significa(n)ti ci possa fornire una chiave di lettura per questo prezioso lavoro che Aboav ha scritto assieme alla sua allieva e compagna di viaggio, la poetessa Annalisa Comes.

Il libro parte da un punto denso di oscurità e violenza (in ebraico “Hamas”), il 7 ottobre 2023 e scatena un flusso di coscienza: la figlia di una scampata ad Auschwitz approda alla necessità di sopravvivenza nel dolore; e la sua angoscia si trasforma, grazie alle parole di luce di Etty Hillesum, grazie alla forza vibrante della poesia, in una candela-faro, uno spot luminoso e brillante verso la riconciliazione. Con chi noi siamo e con chi sono gli altri.

“Mi rendo conto” scrive Hora “che ho vissuto dodici anni di analisi per allontanare i fantasmi della Shoah ed è bastato un solo giorno per farli riapparire, per riportarli in vita.

Il 7 ottobre 2023, un giorno di strazio e violenza, un giorno in cui non da ebrea, non da israeliana, ma l’umanità dentro di me torna a chiedersi perché”.

Ripiombano feroci i giorni della deportazione, e il libro è denso di testimonianze e di reperti fotografici, ritorna Auschwitz, ritorna la disperazione dei deportati e la desolazione degli scampati. La madre di Hora, Rosa Spizzichino, è l’unica di quattro sorelle (Letizia, Graziella ed Elvira, le altre) che riesce a sfuggire l’8 maggio del 1944 alla cattura da parte dei nazisti, si getta dal terrazzino sulla coperta tesa dai suoi vicini, i fratelli Miroddi e si salva.

Non si salva.

Tutta la sua vita la passa condannandosi per quel gesto, per aver abbandonato le sorelle: “Si recluse in una sorta di esilio, al confino, lontana da sé e da Dio (…) Era un giorno di maggio del 1944 e fu quel giorno che mia madre morì”.

Ci risuonano le parole di Primo Levi sulla vergogna del sopravvissuto ne I sommersi e i salvati: “Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? (…) È una supposizione, ma rode; si è annidata, profonda come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride”.

La vergogna che rode e stride, stride e rode. I fantasmi opprimeranno per tutta la vita Rosa, che sovrapporrà i nomi delle sorelle a quelli delle figlie. Sarà quando le rilasceranno il primo documento d’identità, che Hora scoprirà di non chiamarsi Elvira, ma Emma e che sua sorella non si chiama Letizia, ma Patrizia. E uno degli elementi struggenti di questa narrazione/miscuglio è proprio la follia/dolore della madre, che condizionerà la vita di Aboav, documentata minuziosamente in dieci anni di diari, poi bruciati in una luce liberatoria.

Ma quello che interessa alle autrici del libro è farci percorrere a ritroso questo cammino di liberazione dall’ossessione.

Prima di narrarci il grumo oscuro della madre, Aboav e Comes ci accompagnano attraverso la necessità della testimonianza, dell’essere Candele della Memoria, del portare la propria esperienza agli studenti, oggi più che mai, per avvicinarli con cautela e delicatezza all’orrore, ma sempre proponendo loro una rotta di riconciliazione.

Sulla copertina del libro appare un anello, “è d’oro e ha una forma particolare che ricorda i giardini di Versailles, una pietra d’onice con un piccolo brillante al centro, intarsiato di brillantini attorno. Il gioco di luce e buio è bello”.

Era della zia, Letizia, e la madre Rosa lo regala a Elvira-Emma-Hora il giorno del suo Bat-Mitzvah. “Proteggilo più della tua vita!”.

Ma Aboav fa più che proteggerlo: da memoria di lutto, lo fa diventare fonte di luce, lo porta a scuola agli studenti di Annalisa Comes e insieme accendono le candele che illuminano la notte.

Dalla sera (‘Èrev), siamo scivolati nel mondo oscuro, nel buio del dolore, ma l’anello si accende e risplende, con le parole di Etty Hillesum, che frastagliano le pagine del libro, Etty Hillesum ebrea olandese deportata e uccisa ad Auschwitz che annota sul suo diario il 3 luglio del 1942: “La vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuati dal camminare e il gelsomino dietro la casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme, e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio – così, per me stessa, senza riuscire ancora a spiegarlo agli altri. Mi piacerebbe vivere abbastanza a lungo per poterlo fare, e se questo non mi sarà concesso, bene, allora qualcun altro lo farà al posto mio, continuerà la mia vita dov’essa è rimasta interrotta.”

L’anello risplende ancora quando Annalisa Comes fa leggere in cerchio ai suoi allievi Una bottiglia nel mare di Gaza di Valèrie Zenatti “Una lettura rivoluzionaria, perché sono proprio dei giovani a mantenere viva la fiamma del coraggio del cambiamento, dell’ostinazione a superare stereotipi e partigianerie”.

L’anello risplende nelle parole di Wislawa Szymborska:

“Ieri mi sono comportata male nel cosmo.
Ho passato tutto il giorno senza fare domande,
senza stupirmi di niente.”

L’anello risplende nel coraggio dell’assunzione della responsabilità, che è l’unica alternativa all’angoscia. Racconta Hora, diventata psicoterapeuta, che “Un mattino, una paziente austriaca di passaggio a Roma, mi rivelò dopo settimane di trattamento che era figlia di un gerarca nazista e mi chiese di abbracciarla. Come poteva mettere in dubbio che non l’avrei abbracciata con amore? I figli dell’una e dell’altra parte sono preposti al perdono prima di tutto per sé stessi e per il proprio percorso esistenziale”.

E ancora: “Il 23 ottobre 2023, sedici giorni dopo il rapimento del 7 ottobre viene liberata, fra gli altri, Yocheved Lifshitz, di 85 anni. Nel momento del rilascio, la donna si volge indietro e dice ai miliziani di Hamas: “Shalòm!”, cercando la mano del rapitore da stringere. L’uomo imbraccia un’arma ed è incappucciato, eppure lei sembra scorgere quel volto sotto la maschera.”

È con un atto di grande responsabilità che Aboav ci fa notare come dalla radice ע ב ר da cui deriva la parola (‘Èrev), SERA, derivi anche la parola “ARABIA עֲרָב (‘Aràv) e עֲרַבִי (‘Aravì) traduce sia l’ARABO come lingua che come suo abitante. È curioso che עִבְרִי (‘Ivrì) EBREO sia il suo anagramma e che la radice dell’attraversamento e del passato ע ב ר sia così vicino a tutto questo studio anche nell’allertarci dal cadere nell’ עֲבֵרָה (‘Averàh) TRASGRESSIONE delle מִצְווֹת (Mitzvòt).”

Attraversiamo il dolore e il passato, verso il riconoscimento del volto dell’altro, che è solo il nostro, anagrammato. E che è, alla fine, il volto di Dio.

«O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso tutto in lei tutto era messo.”
(Dante, Paradiso XXXIII, 124-132)


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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