Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Sognare (a parole)

Esce "Dreams" del regista norvegese Dag Johan Haugerud. La storia di un amore solo immaginato, condito di troppe parole. Fino a compromettere il ritmo della storia (ma ha vinto l'Orso a Berlino)

È un film di parole più che di avvenimenti, un fiume incontenibile di parole. Come succede quando a diciassette anni tentiamo di capire cosa ci sta accadendo, cos’è quel brivido che fa tremare la pelle e chiudere lo stomaco e quel pensiero ossessivo che ricompare a ogni risveglio e si presenta prima del sonno, un pensiero che fa male e che contemporaneamente è il paradiso: insomma la prima volta che ci scopriamo innamorati. E allora parliamo, parliamo, parliamo.

Dreams è il secondo film della trilogia sulle relazioni firmata dal regista e sceneggiatore norvegese Dag Johan Haugerud. Fino all’anno scorso un perfetto sconosciuto. Poi è successo che, come una valanga che nessuno poteva prevedere, nel corso del 2024, in coincidenza con i suoi sessant’anni, Haugerud ha sfornato tre pellicole, presentando alla Berlinale Sex che è il primo capitolo della trilogia, alla Mostra di Venezia Love che è il terzo, e ricomparendo quest’anno a Berlino con il capitolo intermedio della trilogia, Dreams appunto, che si è aggiudicato l’Orso d’oro. Dopo aver visto il film ho qualche dubbio sulla scelta della giuria presieduta dal regista americano Todd Haynes.

In attesa di vedere Love, che arriverà nelle sale italiane il 17 aprile e pare sia la pellicola più riuscita del terzetto (lo sostiene Luigi Locatelli che li ha visti tutti e di lui mi fido), sfogliamo dunque questo diario adolescenziale di una diciassettenne che frequenta un liceo di Oslo e che si scopre innamorata della sua prof di francese.

Pare un incontro predestinato, tra le due giovani donne ci sono pochi anni di differenza e solo una vocale a separare i loro nomi: l’allieva si chiama Johanne, l’insegnante Johanna. Johanne ama la danza, ha molte amiche e gode della complicità di una famiglia di sole donne: la madre ancora giovane e in cerca di compagnia, la nonna poetessa e femminista, rappresentano due generazioni di donne del nord Europa consapevoli dei loro diritti e per le quali il sesso è una pratica gioiosa e naturalmente senza pregiudizi (esilarante il dialogo in cui la nonna si vanta di aver avuto certamente più amanti di sua figlia).

In questa atmosfera rassicurante, lo sguardo sensibile e sognatore di Johanne si posa un giorno sul sorriso luminoso e charmant di Johanna e niente sarà più come prima: arriva a scuola e subito la cerca, trova il modo di frequentarla con la scusa di imparare a fare la maglia, la differenza tra la realtà e il sogno si fa sempre più incerta. Come in ogni innamoramento, Johanne proietta sull’amata i suoi sentimenti, dando per scontato che siano ricambiati, e il suo diario accoglie il fiume di parole che le confonde la mente e il cuore. Finché non si renderà conto che l’amore che l’ha travolta non è ricambiato, era solo un sogno.

Il bisogno di condividere ciò che ha vissuto per la prima volta, spinge Johanne a far leggere il suo diario alla nonna. Che ne rimane affascinata e poi turbata. Alla madre succede il contrario: prima pensa di denunciare l’insegnante e la scuola, poi capisce che non è successo niente e che quel diario rivela il talento precoce di una scrittrice che merita di essere pubblicata.

Il film, come ho scritto all’inizio, è soprattutto un fiume di parole, tanto che qualcuno ha evocato Éric Rohmer (dopo la vittoria berlinese). Ma alla pellicola manca il ritmo per evitare che lo spettatore guardi l’orologio. Del resto la storia si svolge quasi interamente in interni e l’unica suggestione introdotta dal regista sono le scale che compaiono in diverse inquadrature e sembrano richiamare Escher (in una scena coreografica viene evocata la scala di Giacobbe che punta verso il cielo e sulla quale la nonna arranca alla ricerca di un abbraccio). Ad alleggerire la pellicola arriva il lieto fine: Johanne si lascia alle spalle il passato e capisce che il secondo amore è meglio del primo.

Non mi resta che attendere il seguito, cioè Love. Ma anche Kontinental ‘25 del regista rumeno Radu Jude, che secondo Locatelli avrebbe meritato l’Orso d’oro.

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