Una discussione da aprire
Quale teatro nazionale?
Che tipo di progetto culturale dovrebbe darsi un'istituzione destinata allo sviluppo dell'«utopia del teatro nazionale d'Italia»? Pubblichiamo un intervento-manifesto di Beppe Navello ricco di spunti. Per discutere di idee e non solo di nomine
Da molto tempo, oramai, nel nostro Paese si parla di teatro solo per discutere (o auspicare) nomine politiche o formule vuote. La progettualità è bandita dal dibattito dei teatranti che si limitano a conformarsi alla struttura lobbistica della produzione pubblica. Da tempo, invece, circola un progetto, culturalmente assai solido, di Beppe Navello, centrato sull’esigenza di creare una struttura in grado di sostenere l’«Antica utopia del Teatro Nazionale d’Italia», come la chiama l’autore medesimo. Pubblichiamo, dunque, il progetto di Beppe Navello, sperando che aiuti ad alzare il livello della discussione culturale intorno al teatro. E che, soprattutto, la liberi dallo sterile gossip partitico delle nomine che garantiscono privilegi privi di idee.
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Possiamo affermare che c’è finalmente il Teatro Nazionale nel nostro Paese? Nel 2015, in seguito alla riforma ministeriale dello spettacolo dal vivo, ne sono nati addirittura sette: la più disarmante ammissione che quel teatro da noi non si riesce ad avere. E sicuramente non è per decreto che vedrà la luce. E, di solito, altrove nel mondo, il Teatro custode delle memorie culturali del paese e della lingua nazionale, ha sede nella capitale dello stato. L’Italia, nella sua storia unitaria, di capitali ne ha avute tre: Torino, Firenze e Roma. Alle quali bisognerebbe aggiungere, almeno, due altre capitali di lingua teatrale: Venezia e Napoli. E potremmo candidare altri centri di cultura e di tradizioni secolari, Milano, Palermo, Genova…
Ma cosa vuol dire essere un teatro della lingua nazionale? E che cosa deve fare? Quello che fa a Parigi la Comédie Française, per esempio? O l’Odéon? O a Londra, il London National Theater? O a Berlino la Volksbhüne? Sono domande indispensabili per comporre il profilo identitario del Teatro d’Italia.
IL TEATRO NAZIONALE CHE IN ITALIA NON C’È. Gli studiosi di italianistica, di storia del teatro o anche di storia tout court danno una spiegazione al fatto che l’aggettivo “nazionale” da noi sia guardato con grande sospetto: spiegazione che mi è sempre sembrata quanto meno incompleta. Sarebbe il nostro destino di nazione nata tardi, rispetto ad altre grandi europee, la nostra maledizione di popolo allenato ad arrangiarsi rispetto ai troppi campanili e ai troppi piccoli prepotenti territoriali, ad aver ritardato il formarsi dello stato e di un conseguente orgoglio nazionale, di un senso di appartenenza collettiva. E quindi di un teatro che rappresenti quella coscienza collettiva. Il che non spiega come mai, in una nazione nata dopo la nostra come la Germania, il tema culturale e identitario del Teatro della lingua nazionale si sia posto all’inizio del secolo diciannovesimo attraverso un dibattito durato decenni, fecondo di analisi, proposte e partecipazione intellettuale. La ragione, forse, del nostro disinteresse per quel teatro è che gli Italiani che lavoravano sulle scene si erano inventati con grande successo e proprio nel momento in cui si formavano alcuni grandi stati, un genere e un linguaggio adatto a parlare a tutta l’Europa, che evitava o usava pochissimo la parola letteraria per enfatizzare il gesto, la forza del corpo, la provocazione acrobatica: la Commedia dell’Arte. E dunque risultava perdente per quegli stessi teatranti, rispetto alla platea immensa e cosmopolita che si erano conquistati, un teatro ufficiale destinato inevitabilmente al condizionamento dello spirito accademico come la Comédie Française, il Royal National Theater, la Volksbühne.
Potrebbe sembrare presuntuoso, oltre che destinato all’ennesima sconfitta, auspicare e proporre qui la costituzione di un teatro nazionale che l’indifferenza e la debolezza del potere statuale, alleate allo spirito partigiano dei teatranti italiani, non hanno mai creato. Ma sarebbe l’ora di lavorare per realizzare questa utopia vecchia di qualche secolo. Così, per puro esercizio di umiltà critica e per riportarmi a un salutare realismo, mi piace citare quattro episodi che hanno scandito almeno duecento anni di fallimenti clamorosi nell’illusorio anelito al Teatro Nazionale d’Italia: la Compagnia Reale Sarda che dal 1821 al 1855 rappresentò il primo caso moderno di teatro sovvenzionato dal denaro pubblico attraverso una legge, negli stati del Regno di Sardegna; e che venne più volte in aiuto della politica estera e interna del governo Cavour, fino a quando una violenta campagna d’opposizione di parlamentari delle province non ottenne la soppressione del contributo per evitare ai territori decentrati di “pagare gli sprechi e i capricci della capitale”. Nella seconda metà dell’Ottocento, fu Salvini a tentare una “Compagnia della Nazione” ma l’illusione durò pochi anni e l’ambizioso esperimento dovette chiudere. E all’inizio del Novecento, toccò addirittura a Pirandello la frustrazione di vedersi rifiutare definitivamente da Mussolini la fondazione del Teatro Nazionale d’Italia che pure sembrava per qualche anno aver suscitato l’interesse del regime come evento importante di comunicazione culturale: le lettere a Marta Abba testimoniano l’amarezza del drammaturgo e la sua definitiva disillusione nei confronti del Duce. Infine il modello di teatro pubblico scelto da Strehler e Grassi nel 1946 fondando il Piccolo Teatro di Milano, un centro di cultura teatrale sostenuto soprattutto dagli Enti locali e che forse solo attraverso la scelta di questa alleanza territoriale è riuscito a imporsi come eccellenza italiana in Europa e nel mondo intero.
Intendiamoci, non è obbligatorio come un vaccino il Teatro Nazionale. Dico che non c’è di fatto nel nostro paese perché i sette teatri nazionali istituiti nel 2015 fanno tutti più o meno le stesse cose: e cioè produzione e ospitalità di spettacoli mediamente rappresentativi del panorama contemporaneo italiano e un po’ europeo, senza particolari ansie di originalità o di specifiche vocazioni progettuali. Perseguono giudiziosamente un po’ di sostegno alla creatività giovanile e un po’ di continuità artistica, come chiede il Ministero. Fanno molte giornate lavorative e versano molti contributi. Il che è ben fatto, di fronte al pelago immenso di lavoro nero nel quale sta annaspando lo spettacolo italiano.
UN TEATRO DELLA LINGUA ITALIANA. Che cosa dovrebbe fare invece un teatro che volesse realizzare un progetto da teatro della lingua nazionale? Un teatro che vuole diventarlo nella prassi, nell’azione, nel comportamento artistico? Dovrebbe semplicemente programmare, secondo una strategia critica, la drammaturgia italiana di ieri, di oggi e forse di domani; per dirlo più chiaramente, un teatro che promuova la letteratura italiana destinata nei secoli alla rappresentazione, non c’è ed è ormai necessario che ci sia. Mi piace ricordare qui una delle ultime iniziative di Roger Planchon, illustre regista francese scomparso nel 2009, che pubblicò su Le Monde del 6 febbraio 2003 un appello agli eletti, ai funzionari e ai commissari europei perché patrocinassero la costituzione di una Banca europea delle lingue: cioè un’istituzione culturale che avesse per scopo la difesa e la conservazione delle molte lingue europee minacciate dall’abuso dell’inglese sommario e utilitaristico degli scambi commerciali e burocratici. Non per caso, l’iniziativa venne da un uomo di teatro perché nessuno meglio dei teatranti è consapevole della forza espressiva dell’emozione teatrale; della capacità che ha il linguaggio del palcoscenico di farsi capire da tutti, al di là delle barriere linguistiche. E anche del fatto che la grande letteratura teatrale recitata, rappresentata, agita in palcoscenico è la migliore alleata della buona politica estera, come i secoli d’oro delle grandi nazioni europee ci raccontano.
In Italia la forza del teatro è invece progressivamente venuta a mancare nell’ultimo mezzo secolo: la centralità sociale e urbanistica che l’edificio del palcoscenico aveva in moltissimi centri urbani anche piccoli, accanto alla chiesa e al palazzo municipale, è stata progressivamente allontanata verso un’emarginazione periferica; la battaglia per l’egemonia culturale si è combattuta su altri fronti anche da sinistra, la televisione pro o contro il modello berlusconiano è stata da un certo momento in poi l’unico dibattito linguistico in grado di attrarre l’attenzione di sociologi e intellettuali impegnati. Pasolini stesso confinò l’esercizio della scena in un destino appartato: nel Manifesto per un nuovo teatro che accompagnava nel 1968 la pubblicazione delle sue sei tragedie in versi, il poeta sosteneva che il teatro italiano doveva parlare a un pubblico ristretto di intellettuali e doveva parlar difficile, appunto in versi. Questo perché gli scrittori teatrali nel nostro paese erano costretti a una lingua artificiosa, una lingua inventata dalle scuole di recitazione che non si è mai parlata da nessuna parte: il dibattito plurisecolare sulla questione della lingua non aveva mai affrontato il problema dell’italiano pronunciato; che non sarebbe mai esistito se non con la diffusione della televisione, dal 1954 in poi. Prima di allora, i cosiddetti italiani parlavano una molteplicità di dialetti incomprensibili gli uni agli altri. Suggestiva questa tesi di Pasolini, come tante altre sue provocazioni intellettuali, che dimentica però alcuni dati storici incontrovertibili: i predicatori che dal Medioevo in poi, spostandosi di abbazia in abbazia dalle Alpi a Lampedusa, dicevano le loro omelie in volgare e non nei dialetti dei luoghi che non potevano conoscere; i documenti giuridici e notarili che addirittura dai tempi del Placito Capuano (marzo del 960 d.C.!) dimostrano l’uso di formule testimoniali redatte in volgare e non in latino per consentire alle parti di provenienza diversa la più ampia comprensione possibile; dal 1861, dall’unità del paese in poi, la leva militare obbligatoria che per due anni costringeva giovani di ogni regione dello stivale a convivere gomito a gomito; e infine il teatro di tournée (caratteristico proprio della nostra lunga penisola) che accanto al repertorio in napoletano o in veneto, non ha mai tralasciato i testi in lingua italiana, alcuni benedetti da secolari fortune di pubblico, fino al primo Novecento.
Nonostante tutto, però, la tesi pasoliniana si è guadagnata molta fortuna mediatica oltre che critica, acquisendo persino consensi nel dibattito politico, presso i fautori di derive autonomiste o secessioniste: quando invece è evidente che in nessun luogo del mondo, mai, il teatro ha parlato la lingua dell’immediatezza quotidiana; ma sempre una lingua reinventata dalla creatività drammaturgica anche quando riproduceva per mimesi la spontaneità della parlata popolare. Il grande teatro di repertorio nazionale praticato dalla Comédie Française, per esempio, si rivolge a spettatori francesi che parlano e pronunciano il francese da Bretoni o da Corsi, da Alsaziani o da Baschi: e tutti si riconoscono o si finge che si riconoscano nella lingua codificata dall’Académie, inesistente come quella che Pasolini rimproverava al teatro italiano (per inciso mi piace ricordare che la fondazione dell’Académie risale al 1635 e nel 1680 un decreto reale istituisce la Comédie Française; da noi, la pubblicazione del Dizionario della Crusca è del 1612 ma la Comédie Italienne non è mai seguita…)
Proprio a un teatro, magari alleato a una grande sede universitaria (a Roma, a Firenze, a Milano, non mancano le sedi universitarie, comprese quelle di ispirazione cattolica); o alleato ad Accademie di ricerca (l’Accademia dei Lincei, della Crusca, la Biblioteca Ambrosiana); a un teatro, sì, può riuscire l’azione più efficace per difendere, valorizzare e sviluppare la lingua nazionale minacciata dall’abuso semplificatorio della rete e dei media: è un’azione ormai invocata come indispensabile dalla scuola, dall’università, persino dai grandi giornali che promuovono con l’Accademia della Crusca, appunto, pubblicazioni per incoraggiare il buon italiano; o dalla Crusca stessa che in questi giorni si presta a supervisionare i testi delle canzoni di Sanremo, rilasciando patenti di eccellenza tra il compiacimento dei presentatori televisivi. Ma il teatro ha la forza di saper praticare, attraverso la drammaturgia, la lingua pronunciata con la solennità che proviene dalle tavole del palcoscenico. Se pensiamo al repertorio frequentato in questi anni dai grandi teatri pubblici italiani, si resta sbalorditi di fronte al poco spazio concesso alla letteratura teatrale del nostro paese: del passato, se si eccettuano quattro o cinque titoli di Pirandello e altrettanti di Goldoni, di qualche Eduardo e di uno o due Pasolini per sentirsi moderni, non viene rappresentato più nulla. Ariosto, Tasso, Giordano Bruno, Ruzante, Gozzi, Alfieri, Pellico, Manzoni, Giacosa, i grotteschi, Savinio, D’Annunzio, Rosso di San Secondo, Betti, Bontempelli, Moravia, Arpino, Flaiano, persino Dario Fo sono spariti dai nostri cartelloni da quasi tre decenni; è riapparsa sporadicamente qualche Mandragola e qualche Venexiana da rassegne estive, in confezioni smaccatamente scollacciate, per strappare la risata balneare. Ricorrenti polemiche corporative hanno indotto il Ministero della Cultura ad incoraggiare rassegne di drammaturgia contemporanea ma senza un vero progetto culturale, seguendo le umoralità di un ceto di critici sempre più autoreferenziale. Mentre un’attenta visione della contemporaneità dovrebbe ricercare nelle nuove frontiere delle tecnologie e nell’autonoma creatività del palcoscenico agito, il teatro del prossimo futuro: ma di questo parleremo in un altro paragrafo. E con quest’ultima considerazione spero di aver sufficientemente rassicurato chi temeva la proposta di infliggere al pubblico, soltanto l’Orbecche di Giraldi Cinzio o la Sofonisba del Trissino. Il progetto riguarda un teatro contemporaneo di regia, custode del repertorio letterario nazionale. Un teatro che sicuramente non c’è, in questo nostro paese che sta perdendo la memoria.
IL TEATRO DEL GESTO E DELL’URLO, UN TEATRO EUROPEO. Questo titolo provocatorio, ancora una volta preso in prestito dal Manifesto di Pasolini, ricorda tutta la sprezzante impazienza che lo scrittore friulano riservava a quello che allora si definiva il teatro d’avanguardia e che oggi si chiama generalmente d’innovazione. Ma in apparente contraddizione con quanto detto fin qui, il Teatro della lingua nazionale che stiamo cominciando a immaginare non può ignorare quanto di nuovo, sorprendente e diverso si produce altrove. L’esperienza ultradecennale maturata alla direzione di un festival come Teatro a Corte (il festival di spettacolo dal vivo nelle dimore sabaude del Piemonte), mi consente di indicare facilmente alcune direzioni di ricerca per trovare buon teatro contemporaneo capace di sguardi inaspettati sulla realtà. La prima è quella della contaminazione delle forme che ha innovato le buone pratiche teatrali in tutta Europa, intrecciando saperi e stili che tradizionalmente operavano in settori diversi dello spettacolo dal vivo e che, invece, sempre più spesso, concorrono insieme ad esprimersi in un racconto condiviso; si fa fatica ormai a definire gli spettacoli secondo le categorie ancora in uso presso il nostro Ministero, laddove commissioni diverse valutano la bontà dei progetti; danza, prosa, video art, musica, circo contemporaneo convivono sempre più stabilmente insieme, in tutta Europa e qualche volta anche in Italia. La seconda direzione di ricerca è rivolta verso le nuove tecnologie, in particolare quelle dell’intelligenza artificiale che stanno producendo risultati artistici straordinari nelle mani di creatori giovani e curiosi di sperimentazione e ci stanno regalando un teatro del futuro dove persino la presenza dell’attore dal vivo è messa in discussione. Provo qui a citare alcune esperienze di questo tipo che sono arrivate in prima italiana al festival Teatro a Corte, appunto, e che, stranamente, non sono mai riuscite ad avere altra diffusione e attenzione critica nonostante le molte rassegne di innovazione da anni attive in tutto il Paese: penso ai francesi di Groupe F, con i loro spettacoli di fuoco e installazioni luminose, famose in tutto il mondo; agli inglesi di World Aerial Theater e ai loro giganteschi planisferi inclinati che ci parlano del degrado dell’ambiente; ai cavalli fluttuanti e magici dei Quidams; ai belgi di Peeping Tom con le loro grottesche creazioni visuali; alle provocazione in 3d e 4d dell’inglese 1927 e della francese Système Castafiore; alla follia del brasiliano olandese Dudapaiva; a Camille Boitel e al suo instabile circo di cadute rovinose; al poetico teatro equestre del Théâtre du Centaure; alle lievitazioni di Yoann Bourgeois; alle visioni narrative di Philippe Genty; a Luc Amoros e al suo racconto di arte in fieri, durante lo spettacolo; a decine di altri singoli creatori di suggestioni straordinarie come Etienne Saglio, Ilka Schönbein, Ambra Senatore, Yann Frisch, Jérôme Thomas.
ALTRI LUOGHI DI TEATRO PER CREAZIONI IN SITU. Molti degli spettacoli citati possono, oserei dire devono, essere presentati in luoghi non tradizionalmente teatrali. Si tratta di performance che spesso sono pensate ad hoc per i luoghi ai quali sono destinate, la creazione in situ è il loro elemento caratterizzante, il modo di vivere il teatro anche fuori delle mura: “hors les murs” dicono i Francesi, che hanno coniato addirittura questa definizione per l’Istituto che promuove il teatro concepito e realizzato al di là dei confini tradizionali del palcoscenico. Dove c’è il resto del mondo e della vita quotidiana.
Tutte e tre le città citate sono ricche di un tale splendore architettonico, artistico e paesaggistico da incoraggiare ambizioni smodate: e l’Italia in generale è, come abbiamo già ricordato, l’universo geografico e culturale nel quale è nato, all’inizio del Cinquecento, il teatro moderno, quello che poi l’Europa tutta ha fatto suo declinandolo in forme diverse e continuando a praticarlo felicemente anche in questa nostra accidentata realtà contemporanea. Perché soltanto da noi deve essere condannato alla marginalità?
ALLEANZE E COPRODUZIONI CON ALTRE CAPITALI D’EUROPA. Un Teatro della lingua nazionale, orgoglioso interprete della tradizione letteraria del proprio Paese e radicato nel tessuto urbano della capitale, deve dialogare proficuamente con le altre analoghe realtà d’Europa. Trovare collaborazione con i grandi teatri nazionali d’Europa citati prima sarà indispensabile, anche se non facile a causa della discontinuità e della fragilità del sistema teatrale italiano che rende precaria la programmazione a medio e lungo termine. A Parigi, a Vienna, a Berlino, a Londra, e anche a Madrid e a Praga, si trovano decine di grandi e piccoli teatri attivi ogni sera; a Roma si sceglie la sala cercando alternative con le dita di una mano. Ma ricominciare ad esistere è importante e confrontarsi con quel che accade al di là delle Alpi e magari del Mediterraneo, può essere la strada più efficace per uscire dal provincialismo nel quale siamo sprofondati; Roma Capitale, per esempio, ha bisogno di ricordarsi continuamente, nelle scritte e nei loghi istituzionali, di essere capitale di un grande stato europeo; come può continuare a negare la propria cultura teatrale alla popolazione cosmopolita di numerosi organismi internazionali, di tre rappresentanze diplomatiche, di turisti e operatori provenienti da tutta Italia e da ogni parte del globo?
IL DESTINO DI ROMA CAPITALE. Quanto raccontato sopra, non vuole assolutamente essere una bozza di progetto di possibile attività triennale per il MIC. Evidentemente, un progetto triennale va predisposto con gli organi e la struttura di ogni singolo teatro, dopo un’approfondita analisi delle risorse e delle potenzialità aziendali. Ho cercato invece di richiamare l’attenzione su una assenza culturale del teatro italiano, su un vuoto identitario che il Teatro della lingua nazionale, in particolare della Capitale, sarebbe chiamato ad affrontare per naturale vocazione. Forse un modo per superare le molte difficoltà di una città e di una nazione troppo miseramente in affanno nella gestione della propria contemporaneità quotidiana, è quello di volare alto, ritrovando ragioni di identità collettiva nel senso stesso della parola “nazionale”. Per questo mi piace terminare la riflessione con il richiamo al discorso parlamentare di Cavour su Roma Capitale, discorso peraltro inciso nel bronzo della nuova Stazione Tiburtina, ancorché ignorato dalla frettolosa impazienza di chi deve raggiungere i treni ad Alta Velocità:
«In Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali, tutta la storia di Roma, dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi, è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande stato». (25 marzo 1861)
Nelle immagini, i celebri pulcinella di Giandomenico Tiepolo.


