Il regista diventa spettatore
Povero Montecristo!
Qualche considerazione (tecnica ma non soltanto) sullo sceneggiato televisivo "Montecristo", recente campione di audience. Un successo conseguito a dispetto di Dumas
Perché Il Conte di Montecristo diretto da Bille August e scritto da Greg Latter e Sandro Petraglia, un indiscutibile successo, una ricca produzione internazionale che ha conquistato quasi sei milioni di spettatori su RAI e Netflix, con riprese suggestive tra Parigi, Torino, Roma, la Toscana e altro ancora, a me non è piaciuto? Per un conflitto di interessi? Confesso di aver adattato per due volte un altro capolavoro di Dumas, I Tre Moschettieri, a teatro, allo Stabile dell’Aquila prima (1986/87) e a Teatro Piemonte Europa di Torino dopo (2016); due lunghissimi spettacoli a puntate, per intere stagioni, coinvolgendo registi diversi per ogni episodio. Alla fine del clamoroso successo torinese, qualcuno del pubblico mai identificato innalzò uno striscione di tela con la scritta: “L’anno prossimo Il Conte di Montecristo!”. Ma non sono più riuscito a realizzare quel progetto né a Torino da dove sono partito poco dopo, né a Firenze, né a Cinecittà, né altrove. Ecco perché sono sospettabile di frustrazione e quindi non credibile come giudice imparziale.
Io non sono un critico, sono un regista: e tutte le volte che ho pensato al Conte, ho pensato a un uomo dalla fisionomia impenetrabile, gelida, incapace di comunicare empatia; un uomo in grado di affascinare tutti quelli che vuole incontrare, certamente, ma alieno da passioni (almeno apparentemente), che non assomiglia a nessun altro, nemmeno a sé stesso da giovane. E infatti nessuno lo riconosce mai, solo la donna amata non appena lo incontra (perché il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce…) Niente a che vedere con un viso incapace di nascondere l’autocompiacimento che accompagna il successo: quello per intenderci di Sam Claflin, l’attore britannico scelto per il ruolo protagonista. Ma chi è questo protagonista e come dovrebbe essere?
Edmond Dantés è un felice, giovane marinaio innamorato al quale vengono sottratti per invidia e gelosia l’amore, la felicità e la libertà; rinchiuso nel Castello di If, la sua seconda identità diventa quella di un carcerato senza più nome né volto che attraverso le lezioni di vita dell’abate Faria, suo compagno di prigionia, matura in sapienza, in consapevolezza e in grazia; evadendo, rimane per poco tempo negli scomodi panni di un ricercato dalla polizia perché diventa ricchissimo grazie al tesoro che Faria gli ha rivelato esistere nell’isola toscana e si compra persino un titolo nobiliare; è quindi francese e insieme italiano; diventa il Conte di Montecristo per portare a termine il suo piano di vendetta ma travestendosi continuamente da Sinbad il marinaio, da abate Busoni, da Lord Wilmore, a seconda dei nemici che insegue e incontra; non vuole tornare ad essere Edmond Dantés perché teme che sia impresa impossibile e perciò assume almeno quattro identità attraverso un lunghissimo percorso di vita proprio per scoprire che l’ultima identità, quella di prima, è un’amara disillusione. E si allontana su un veliero verso un indefinito orizzonte mediterraneo.
Durante le mille pagine di quel romanzo, Edmond Dantés non parla mai del passato, non rivela mai a nessuno il suo antico nome anagrafico, non spiega neanche ai complici che associa al progetto di voler perseguire una spietata vendetta, si incarna di volta in volta in personaggi diversi per raggiungere le tappe del suo piano. È uno strumento senza passione della Provvidenza divina che deve ripristinare la giustizia attraverso il castigo dei peccatori. Lui non compie mai violenza, non alza mai la mano contro i nemici ma facilita il corso del destino, influenzandolo con la ricchezza spropositata che la fortuna (anche quella, provvidenziale) gli ha fatto trovare.
Invece, nel Montecristo cinetelevisivo il protagonista parla molto, si rivela subito al primo antico nemico Caderousse che rende addirittura suo complice (imperdonabile contraffazione rispetto al romanzo); spiega ogni suo piano per paura che lo spettatore non capisca, addirittura ci si mette in mezzo di persona, usando persino violenza fisica, uccidendo o versando sonniferi con le proprie mani; non è il deus ex machina che predispone la vendetta affidandola agli altri e guardando inesorabile il corso delle cose; e accanto a lui, Haydée non è più la misteriosa principessa esotica che nessuno sa da dove viene e che lui esibisce in società con studiata parsimonia ma un’immigrata che spiega subito quel che si dovrebbe sapere solo alla fine.
Il lettore del romanzo di Dumas si identifica con i vari travestimenti del protagonista, capisce che sono quasi certamente Edmond ma li sente diversi dall’Edmond conosciuto in gioventù, avverte che si tratta di una storia molto attuale di disidentità. Lo spettatore cinetelevisivo, invece, indirizzato verso la facile strada della vendetta, vuole che vada a finire bene e che lo sterminatore alla Steven Seagal riesca a eliminare i suoi nemici. Abbiamo reso semplice il complicato, torrentizio racconto di Dumas, dicono regista e sceneggiatori, per ridurre i troppi personaggi, per cancellare alcuni episodi collaterali; dimenticando che Dumas è l’efficacissimo precursore, nell’Ottocento romantico, del feuilleton a puntate e non si perde quasi mai in lungaggini narrative. Sullo schermo televisivo, si arriva facile facile alla fine: dove la manina di Ana Girardot (una Mercedes più credibile di Edmond ancorché chiacchierona come lui), afferra e trattiene quella dell’amato, su uno scoglio di Marsiglia battuto dal mare burrascoso: domani è un altro giorno e si vedrà…
Ma insomma, non ha nessun merito ai miei occhi non imparziali questo Kolossal cinetelevisivo? Un merito c’è e non da poco: aver fatto riaffezionare il pubblico alle grandi storie in costume dopo indigestioni pluridecennali a dimesse vicende contemporanee, “da un tinello a un altro tinello” direbbe Woody Allen (o peggio, come accade nella lirica, a vedere traviate ambientate nel Maggio Sessantotto o rigoletti in cappotti nazisti). Di questo sono davvero contento così da perdonare alcuni svarioni filologico-storici di divertente ingenuità: Montecristo e i giovani gentiluomini suoi nemici che all’Hôtel de Londres a Roma pranzano in una vera e propria sala ristorante, con una trentina di tavoli tutti occupati intorno a loro (siamo nel 1840, circa!); la perfida moglie del procuratore Villefort che per procurarsi di nascosto il veleno del Conte chiede “di poter andare in bagno” (sempre nel 1840, circa!); i due giovani de Villefort e d’Epinay che per far capire ai telespettatori di essere giovani e disinvolti, si presentano a pranzo e in visita di cortesia sempre senza giacca, in panciotto, (ancora nel 1840 circa!)
In ultimo, un merito che insieme è un demerito: c’è un bel gruppo di attori italiani nel cast (bravissimi Lino Guanciale, Michele Riondino, Gabriella Pession); ma non nel ristretto club dei protagonisti e coprotagonisti. Una produzione che si definisce orgogliosamente italo francese ha scelto prima di tutto un regista e poi una compatta brigata di illustri interpreti di lingua inglese, con un premio Oscar in testa, per incarnare personaggi francesi e italiani, dipinti nel romanzo che meglio non si può. Eppure è tornato utile immergere la vicenda nelle dimore sabaude del Piemonte, nel Palazzo di Città di Torino, alla Venaria Reale, nelle “mura e gli archi e le colonne e i simulacri e l’erme torri degli avi nostri”: torna sempre utile il patrimonio artistico e monumentale italiano, fa risparmiare le produzioni e manda in brodo di giuggiole gli assessori dello Stivale. “Ma la gloria non vedo…” continua il poeta e qui dovrei scrivere un altro articolo (questo è già insopportabilmente prolisso, me ne scuso) per lamentare la debolezza dei nostri sistemi cinematografici, teatrali, musicali; e capire, magari insieme ai fortunati italiani inseriti nel cast, che cosa si può fare.


