Nadia Tarantini
Su “Jeanne Hébuterne. La luce di Modigliani”

Jeanne e Modì

Stefania Colombo racconta la storia di Modì dalla parte di Jeanne Hébuterne, l'artista geniale e vitale che condivise avventure e sogni con Modigliani

La fine è nota.
«Ho sempre detestato il girotondo. Non voglio tornare al punto di partenza.
Mi giro verso di te e ti immagino nel buio. Ti ascolto mentre respiri.
Respiro.
Salgo sul davanzale e spicco il volo.»
Ma come si svolsero i fatti – Jeanne Hébuterne. La luce di Modigliani (di Stefania Colombo, Morellini, 224 pagine, 20 euro) lo racconta in modo ben diverso da quanto sia stato scritto e detto sinora.

In una lunghissima notte, con la compagnia del fratello André, la protagonista ci dà la sua versione dei fatti. E quella che per qualche secolo è stata definita solo in relazione al suo compagno, il grandissimo artista, musa tutt’al più, afferma con determinazione che il suo ruolo non fu mai quello una giovane, giovanissima donna soggetta ai voleri e alle voglie di Amedeo Modigliani, Modì.

Era artista anche lei – e non di seconda fila – e c’era un patto paritario fra loro, di reciproca libertà, di reciproca grande considerazione l’uno del lavoro dell’altra; un’alleanza per sviluppare i loro talenti, al di fuori di ogni condizionamento.

Amedeo è morto da neanche due giorni – e Jeanne si trova ad affrontare un grande, pauroso vuoto. Da sola, e con un altro figlio suo nel ventre, che sta per nascere, vede davanti a sé l’abisso della vita che non ha voluto vivere, e che ora le si ripropone senza possibilità di scelta (Non si trova di nuovo nella sua cameretta di ragazza, nella casa del padre?).

Nelle lunghe ore che corrono verso l’alba, ripercorre la loro storia, giorno per giorno; ripercorre il proprio, difficilissimo rapporto con quel padre che – è vero – è andato a prenderla dopo la tragedia, ma non si è spostato di un passo dalla sua consueta freddezza, non ha mitigato di un grammo il suo disprezzo per le scelte della figlia. E anche il fratello André, ora così affettuoso, complice, protettivo, nel recente passato le è stato più che nemico. Schiavo della stessa mentalità.

«Tu sei rientrato dalla guerra ed eri venuto a Nizza. Avevi scoperto tutto in una volta sola: il concubinaggio, la perdita della verginità, la nascita di una bambina illegittima. […] Non ti avevo mai visto così. Eri furibondo. […] Ricordo le urla. Ho dimenticato le parole, ferivano troppo. […] Sei partito e ho temuto che non ti avrei più rivisto.

Sì, è stato poco tempo dopo la tua sfuriata. Il momento peggiore.»

La madre di Jeanne, no, la madre negli ultimi anni le è stata vicina, l’ha aiutata e supportata – ma come tutte le donne della sua epoca è soggetta al marito e alla mentalità del suo tempo.

Ora Jeanne, nel silenzio della sua cameretta, alternando una grande lucidità a momenti di confusione mentale, rivive le giornate e le notti di Montparnasse e di Montmartre. Dei cafés di St Germain.

Quel clima arroventato, percorso da novità, ferventi relazioni in cui non si rimuovono scontri e discussioni, tanto diverse dai rapporti ingessati che si praticano nell’ambiente da cui lei proviene. La nutrono nel suo proposito di essere artista, nella continua necessità di sconfessare l’equivoco che anche nei compagni suoi e di Amedeo mette radici.

Che lei sia poco più di una bambina, semmai da proteggere – piuttosto che da prendere sul serio.

Con uno stile empatico, appassionato e una scrittura pulita, che nulla concede alla retorica o ai luoghi comuni, Stefania Colombo, attrice avvocata performer artista e scrittrice – s’immerge completamente nell’animo di Jeanne, nelle sue emozioni di giovane ragazza borghese, dotata di aspirazioni e passioni che il suo ambiente non può comprendere. E insieme fornita di un lucido buonsenso, che le permette di non rimanere abbagliata dalle esperienze talvolta deliranti degli artisti che frequenta insieme a Modì (fra cui, Pablo Picasso).

E di rimanere ancorata a solide convinzioni: essere pittrice, amare, conoscere. E ora, finalmente, gridare la sua verità.

«Pensate seriamente che per tre anni sia stata solo una vittima? No. Per tre anni sono stata la sua donna e lui è stato il mio uomo. Sono stata una donna, senza nemmeno il possessivo. Per tre anni siamo stati compagni. Alla pari. Come non mi era mai capitato nella mia vita. Forse il solo periodo in cui mi sono sentita adulta, con diritti e doveri. Mi sono sentita me stessa. Pur rinunciando a tutto quel che credevo dovesse essere la mia dannatissima vita. Quella che nostro padre aveva deciso per me.[…] Sdraiata sul letto, la mia anima fa il girotondo. Per quanto io corra lontano, torno sempre al punto di partenza. Provo a spiccare il volo da quando sono nata».

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