A proposito di “Una feroce libertà”
Una giustizia giusta
In un libro-intervista Gisèle Halimi, avvocata che per tutta la vita si è battuta per i diritti, spiega qual è il confine tra la realtà e la giustizia delle norme
“Ci fu un’epoca in cui i grandi avvocati umanisti avevano studiato anche filosofia o lettere”, leggiamo a un certo punto nel libro-intervista Una feroce libertà edito nei mesi scorsi da Fve con la traduzione di Lamberto Santuccio (144 pagine, 17 Euro). Si tratta di una lunga conversazione riepilogativa intrattenuta da Annick Cojean, giornalista di Le Monde, con Gisèle Halimi, avvocata francese di nascita tunisina, che grazie alla propria professione ha salvato dalla pena di morte, perorandone la causa presso diversi presidenti in madrepatria, alcuni dissidenti algerini negli anni Cinquanta e Sessanta, epoca del Fronte di Liberazione Nazionale, per dedicarsi poi, in Francia, totalmente alla causa delle donne.
Sarebbero molte le frasi da riportare a piene mani, sintesi efficaci del pensiero e dell’azione, politica e civile, di questa grande intellettuale, attiva nella giustizia a favore dei diritti, e in dissenso netto, spesso, rispetto alla lettera della Legge. Una costante questa, nell’esercizio dell’avvocatura e non solo da parte di Gisèle Halimi, giustamente sottolineata e condivisa nella prefazione al libro da Daniela Dawan, scrittrice e consigliere di cassazione con un passato da avvocata, e un’infanzia vissuta in Libia: Dawan pone il problema della non coincidenza, spesso, tra legalità garantita (osservanza delle leggi, e obbedienza ad esse) e giustizia giusta (ottemperanza dei diritti oltre che del diritto). Sul tema sempre aperto, ci dice Dawan, tra legge naturale e legge positiva, e ancor più a proposito dell’infrazione di leggi “ingiuste” (“ingiuste sono, ci ricorda in un passaggio, “la tortura e la pena di morte che ancora molti stati continuano a praticare nella più assoluta indifferenza del mondo”), un solo strumento può intervenire, come chiave di volta, e soprattutto di svolta, puntualmente assunta da Gisèle Halimi nel corso della militanza durata un’intera vita: la parola.
A maggior ragione questo libro-intervista andrebbe largamente citato in molte sue parti – con questa idea: che Gisèle Halimi, spesso a colloquio con i presidenti francesi per sottrarre al boia gli attivisti algerini dell’FLN, poi tiepidamente accolta e in prudente cooperazione con figure come Valery Giscard d’Estaing e François Mitterrand, infine lungamente impegnata civilmente giuridicamente e politicamente nelle lotte promosse da Simone Veil e sostenute da Simone de Beauvoir a favore della legge sull’aborto, abbia eletto la parola ad arma non-violenta da usare sì in punta di diritto ma pronunciata “con voce vellutata e pacata”.
Un merito non da poco. Non che Gisèle Halimi, come emerge dal libro, non abbia mai alzato la voce e non abbia mai assunto atteggiamenti platealmente ribelli. È successo, altro che, soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza tunisine, quando, non per meccanico atteggiamento di rivolta generazionale, ma per vero dissenso, la giovanissima Gisèle aveva dovuto confrontarsi con la sottovalutazione di suo padre per il fatto che lei fosse una femmina e con la disapprovazione di sua madre che le contestava non solo di amare studiare ma di essere brava ben più del rampollo maschio suo fratello al quale era destinata de plano una vita sociale e professionale garantita in quanto ragazzo poi uomo benché il figliolo non ne fosse per nulla degno. Sua madre restava allibita di fronte al rifiuto di Gisèle ad essere tolta dalla scuola e sottratta al proseguimento universitario e promessa a un marito che la congelasse nel ruolo di moglie e madre, o che Gisèle rifiutasse o svolgesse a denti stretti i lavori di casa e il servile accudimento appunto di suo fratello. Gisèle non poteva credere che proprio sua madre professasse un maschilismo patriarcale persino più obbediente rispetto a suo padre, il quale, molti anni dopo, quando Gisèle si lancia in politica e diventa una figura pubblica fortemente attiva sul fronte femminista con la sua associazione Choisir (la cause des femmes) sarà il suo più aperto tifoso e la approverà completamente nei successi e nelle posizioni (un grande capovolgimento, per Gisèle, sul piano personale e familiare).
Proprio la professione di avvocato diventa per Gisèle Halimi l’arengo di raffreddamento dei furori più plateali e vulnerabili a vantaggio della scelta di azioni in cui la parola assume un ruolo-chiave sorreggendo l’argomentazione, il ragionamento, il perseguimento il più possibile di una giustizia giusta, di una politica a favore dei diritti umani, di una lotta certamente appassionata ma asciutta per il riscatto della donna e di tutti i soggetti che la vita in modi diversi mette in minoranza rispetto al main stream normativo.
Proprio in questo senso la parola per Gisèle Halimi è stata per una vita intera l’arma sì non-violenta, però determinata, efficace, irriducibile (come lei) di una lotta a tutto campo, dettata dalla vocazione a salvare, a riconoscere e restituire dignità, a stabilire la vittoria del diritto sul sopruso.
Val la pena di sottolineare come questo libro abbia anche una sua attualità riportando in primo piano una figura di intellettuale che si batte per il civismo e la civiltà nel senso più alto, cioè etico, di questi termini: si può avvertire un imprevisto filo tra la statura di una figura come Gisèle Halimi e, per contrasto, l’opacità delle posizioni di figure viceversa mediocri, in questi giorni, ad esempio nel caso Almasri. La bufera scatenata dalla vicenda del generale libico e dalle scriteriate posizioni innascondibili del nostro governo è stata così sintetizzata in un telegiornale nazionale che ha riferito le dichiarazioni del Guardasigilli come seguono: “Dispiace che Almasri sia libero per un errore formale, ma i tribunali sono fatti per rispettare le regole”. Ecco, qui Gisèle Halimi avrebbe eccepito che, se le regole o il loro combinato disposto (usiamo il gergo dei leguleî, per una volta) esitano in procedimenti assurdi e ancor più in sentenze inammissibili, forse vanno disattese, e al loro posto, con uno scatto umano fatto di maggior senno o sensatezza (attenzione, non di buonsenso, parola svuotata di significato dal suo abuso ad opera di un cavaliere del lavoro scambiato per statista), debbano seguire decisioni in apparenza aporetiche però non inique.
È questo lo spirito e la lena gagliarda di Gisèle Halimi che traiamo da questa lunga intervista in cui mille volte questa limpida protagonista del secondo Novecento ringrazia suo marito, Claude, non solo compagno nella vita ma anche compagno di lotta, solidale con lei al cento per cento riguardo alle posizioni femministe anche più oltranziste. Gisèle Halimi ne fa un ritratto veloce, tenerissimo e grato, aprendo nella nostra immaginazione la pista verso una identità maschile né patriarcale né maschilista, non ottusa, non settaria, non codificata né obbedita, dunque non vissuta secondo vieti automatismi di genere ma discussa e perennemente riconsiderata da un uomo illuminato, compagno molto amato anche per questa sua disponibilità a sposare Gisèle in tutto, specie nelle idee. E poi è encomiabile l’azione costante di questa coppia di avvocati e cittadini ad aprire la loro casa non solo come punto di raccolta delle militanti di Choisir ma a volte come rifugio per donne povere maltrattate abusate ostracizzate a causa dell’aborto. È notevole quanto la Halimi dice, parlando con l’intervistatrice di Le Monde, Annick Cojean, sulla maternità, capovolgendone completamente l’idea corrente, anche in rapporto alla lotta da lei sostenuta al fianco di Simone Veil per la legge del 1974 sull’aborto, e per una pari opportunità ad accedervi a prescindere dal ceto sociale e dalla condizione economica.
Gisèle Halimi dunque è stata più che un’avvocata: è stata una attivista, una intellettuale attiva.
Val la pena di chiudere sottolineando proprio il termine avvocata e non avvocatessa riprendendo una acuta osservazione linguistica e civile allo stesso tempo proposta da Vera Gheno a proposito della cacofonia e non solo di certi femminili come poetessa, studentessa, avvocatessa appunto, quando si può benissimo dire avvocata (come recita anche una nota preghiera della tradizione cattolica), poeta e studente: le finali in -essa all’inizio del Novecento sembrarono pura declinazione morfologica al femminile, come accettazione sin dal termine dell’accesso delle donne a quei ruoli, ma erano in realtà una segnalazione, una indicazione ipocrita, un’altra, più raffinata, ghettizzazione di genere. Ricordiamo a tal proposito l’ostinazione di Elsa Morante a dire poeta anche al femminile e a esigere che di lei si dicesse scrittore e non scrittrice, avvertendo nella variazione morfologica una diminutio per lei inaccettabile, la riduzione della donna che scrive a pura declinazione del genere dominante, invocando peraltro un superiore genere neutro che (fosse stato latino…) in italiano non si dà – da cui, di recente, la discutibile introduzione della schwa o dell’asterisco inclusivo.
Sono piccole sfumature che covano discriminazione, coniugata a un progetto di normalizzazione, cioè a un ordine normativo imposto, in cui non è dato spazio alla decisione di alcuni soggetti a determinarsi, ciò che andrebbe garantito da una giustizia giusta, da un diritto umanistico.
Esattamente ciò per cui si è battuta Gisèle Halimi per una vita intera, ed esattamente ciò cui ha cercato di richiamare la stessa intervistatrice, Annick Cojean, in una sorta di passaggio di consegne: ricordandole come, da giovane apprendista-avvocata a Tunisi, si rivolse al magistrato di turno, “Signor Presidente” (chi non sente risuonare qui l’anafora del noto brano antimilitarista di BorisVian, Le Déserteur?), “l’ingiustizia mi è francamente intollerabile!”, le ha poi ingiunto, “Santo cielo, Annick, bisogna fare qualcosa! Lei non è un’avvocata, ma è pur sempre una giornalista! Su, si metta all’opera!”.
La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.


