A proposito de "Il trio di Belgrado"
Durrell, la spia
Il regista serbo Goran Markovic ha scritto un (quasi) romanzo per raccontare l'avventura a Belgrado di Lawrence Durrell. Uno strano periodo nel quale il romanziere divenne spia...
L’artista, voilà: questo è il nocciolo. Nel guazzabuglio che segue, un dato inoppugnabile è che Lawrence Durrell era un artista. Scrittore, poeta (con attestato di merito rilasciato nientedimeno che da Thomas Stearns Eliot). Inesausto dongiovanni, che, in fondo, c’è chi vede come una forma d’arte. Ma, ci si chiede, cos’è, che fa l’artista? Che contributo fornisce allo svolgersi delle umane vicende? Indica davvero realtà altre, orizzonti sconosciuti, vie salvifiche? Lui che percorre strade inusuali per l’uomo comune.
Durrell, un po’ enfaticamente, la vedeva così: «Consapevole di tutte le dissonanze, di tutte le sventure insite nella natura umana, l’artista non può fare niente per mettere in guardia i suoi amici: nessun gesto, nessun grido che li avverta in tempo e cerchi di salvarli. Sarebbe inutile. Essi stessi sono gli artefici della loro infelicità. Tutto ciò che l’artista può dire è: “Rifletti e piangi”».
Ancora. Cosa può avvenire se questa bizzarria della creazione, che si muove goffamente nella cosiddetta normalità, come l’albatro celebrato da Baudelaire, viene ingabbiato in un contesto di rigido pragmatismo, di sorniona simulazione, qual è l’attività diplomatica? E sì, perché il poeta Durrell lavorò, come addetto stampa, nell’ambasciata britannica di Belgrado, ai primordi della Guerra fredda. Ruolo che, al di là dell’etichetta anodina, implicava la ricerca di informazioni. A dirla papale papale, Durrell fece lo spione.
Ed ecco che un importante regista serbo, Goran Markovic, ha ricostruito quella storia particolare, andata avanti per circa tre anni. Nella tetra Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito, da poco addivenuto al divorzio – politico, intendiamoci – con il capo supremo del comunismo internazionale, Josif Stalin, che, nell’arengo del Cominform, lo aveva accusato di deviazionismo e, suprema eresia!, trotzkismo. Il tutto nella cornice soffocante dell’ir/realismo socialista. Dove vivere era complicato e al limite del pericolo per gli stessi autoctoni.
Lavoro non facile, perché quello scorcio di vita dell’artista non era stato mai narrato o riportato da nessuna parte, men che meno dal protagonista. Markovic, quindi, ha dovuto pazientemente frugare tra documenti riservati, lettere private, sporadiche testimonianze tra rari sopravvissuti. E – qui interviene la mano del regista – ha compiuto una sapiente opera di montaggio. E dato infine alla luce un’opera, Il trio di Belgrado (Biblioteca errante edizioni, pagg. 224, 17 euro). Che, se si vuole cercare il pelo nell’uovo, non è canonicamente un romanzo (a detta dello stesso autore, che sottotitola: materiali per un romanzo), ma ha movenze, respiro, immediatezza di romanzo. Che sciorina un racconto avvincente, non privo di passaggi anche divertenti, per la palese singolarità del personaggio. Vedremo poi cosa giustifica quel titolo.
Senza tanti giri di parole, malgrado il distacco dall’Unione sovietica, la Jugoslavia di Tito replicava nella realtà il clima plumbeo del 1984 di George Orwell (anch’egli, come Durrell, cittadino britannico nato in India). Nel quadro di una desolante ristrettezza economica, tutti sospettavano di tutti. Bastava una parola fuori posto per essere bollati come filorussi, agenti di Stalin, spie, ed essere spediti, per recuperare la fede perduta, cioè mutare le proprie idee, in un lager. O, come appunto accade ad uno dei personaggi della storia, una giornalista tirocinante, schivare le attenzioni di un collega, per essere additata come traditrice. Inutile specificare che, nell’isolamento dei lager, al riparo da occhi indiscreti, sopraffazioni e torture erano all’ordine del giorno; sopravvivere, se non interveniva l’abiura, rappresentava un’impresa sovrumana.
Ma ecco che arriva il nostro eroe. Il cui compito ufficioso sarebbe stato collegarsi con quanti, nell’ombra, tramavano per riportare in Jugoslavia il re, Pietro II. Il sovrano aveva avuto il coraggio di rigettare, in piena Seconda Guerra mondiale, l’alleanza con l’Asse stipulata da un principe reggente. Mossa, quella di Pietro II, che il paese avrebbe pagato a caro prezzo, perché venne invaso dalle forze dell’Asse e subì ogni sorta di atrocità. Cui concorse in non piccola parte l’Italia fascista.
Non aspettatevi mirabilie o acrobazie funamboliche alla James Bond. Inserito nella perversa razionalità dell’ingranaggio spionistico, Durrell si muove da par suo, concentrato unicamente su sé stesso, incurante al cento per cento delle aspettative e delle esigenze degli altri.
Insomma, per la sua stessa natura è la scheggia impazzita che spariglia tutte le carte. Non avvenisse in mezzo a sanguinose tragedie e torbidi complotti, si potrebbe pensare a un ispettore Clouseau che va avanti per la sua strada, e che, come primo se non unico pensiero, per dirla con De André, «metteva l’’amore sopra ogni cosa». Il che lui, Durrell, candidamente assiomatizzava così: «L’eziologia dell’amore e quella della follia sono identiche, solo qualitativamente diverse».
Lo scrittore, infatti, poteva contare su un’inesauribile riserva di massime altisonanti, non sempre perspicue, per spiegare le sue azioni. Si dichiarava egotista e affermava: «L’egotismo è una fortezza in cui la conscience de soi-même, come un acido, corrode tutto». Assioma che la moglie dell’epoca, forse meno acculturata, interpreta, e non è detto che sbagli, come un’accusa di egoismo rivolta a lei.
Tra un amorazzo, un amore quasi sincero, una figlia legittima in arrivo, una bimba senza più genitori cui badare, la prima figlia del tutto dimenticata, i suoi intrighi quotidiani, Durrell elabora già nella propria mente l’opera destinata a dargli lustro, Il quartetto di Alessandria (una tetralogia fondata su quattro personaggi: Justine – plasmata sull’amante di quei giorni –, Balthazar, Mountolive, Clea), cui Markovic attinge per riportare alcune frasi dello scrittore e per il titolo parodistico del suo lavoro.
L’egotismo tetragono di Durrell fa venire i sudori freddi, oltre che alla malcapitata Eve Cohen, la moglie, al povero ambasciatore britannico, che più di una volta deve intervenire imbarazzato per toglierlo dai guai, e che a più riprese scrive al ministro degli esteri britannico, implorandolo di richiamare in patria quello scavezzacollo e tenercelo.
Da ultimo, per alzare un po’ di grana, Durrell sventatamente rischia la vita; si piazza davanti al palazzo dove risiede Tito, e, tra lo stupore delle guardie, che subito lo arrestano, insiste per vendere al maresciallo l’auto blindata di Göring, che lui aveva acquistato sotto costo. È l’epilogo di una non brillantissima carriera di spia.
Ma lui è già oltre. Sta elaborando il Quartetto. Sotto l’egida di Sigmund Freud, debitamente chiamato in causa: «Mi sto sempre più convincendo dell’idea di considerare ogni atto sessuale come un processo nel quale sono coinvolte quattro persone».
La spia, infischiandosene bellamente, ha fallito. Lo scrittore ha covato un capolavoro. Ma la domanda resta inevasa: cos’è, alla fin fine, un artista? Questo albatro dalle sembianze umane. Rubiamo un’evasiva ma possibile risposta al genio di Gertrude Stein, parafrasando una sua celebre definizione: un artista è un artista è un artista…


