Letterature diverse
La poesia è un fuoco
Incontro con Abdilatif Abdalla, poeta, scrittore e attivista politico keniano di lingua swahilli. «Le idee sono fondamentali, ma anche con i versi si può cambiare il mondo»
Nell’ambito della nostra rubrica sulla letteratura africana, in collaborazione con i professori di africanistica dell’Università di Napoli L’Orientale, questo mese intervistiamo Abdilatif Abdalla, poeta, scrittore e attivista politico keniano. Abdalla, dopo essere stato per tre anni in isolamento in carcere per la sua attività politica, si trasferì in esilio in Tanzania. Lì lavorò come ricercatore sulla lingua swahili all’Università di Dar es Salaam e collaborò alla redazione di un dizionario swahili. Nel 1979, si trasferì a Londra e lavorò per il dipartimento swahili della BBC, curando in seguito la rivista di notizie Africa Events. Successivamente Abdalla ha insegnato swahili all’Università di Lipsia, in Germania, dove attualmente vive nella città di Amburgo.
L’intervista è stata fatta in collaborazione con la professoressa di lingua e letteratura swahili presso l’Università di Napoli L’Orientale, Flavia Aiello.
Abdalla è autore di Sauti ya Dhiki (La voce dell’agonia, Oxford University Press, 1973), il diario di prigione in versi che lo ha reso uno dei poeti contemporanei swahili più noti e apprezzati, tradotto in inglese da Ken Walibora Waliaula (The Imaginative Vision of Abdilatif Abdalla’s Voice of Agony, a cura di A. Drury, University of Michigan Press, 2024) e in parte in italiano da Flavia Aiello (in Ushairi na Uhuru. Poesie scelte di Abdilatif Abdalla e Euphrase Kezilahi/Mkusanyo wa tungo za Abdilatif Abdalla na Euphrase Kezilahi, Università di Napoli L’Orientale, 2017). Ironicamente, nel 1974 il volume vinse il premio letterario che porta il nome di Kenyatta, lo stesso presidente autocrate che lo aveva incarcerato
Mi racconta della sua infanzia?
Sono nato a Mombasa in Kenya nel 1946, ma sarete sorpresi di sentire che ho vissuto lì in totale per otto anni, il resto della mia vita l’ho vissuto altrove. Già all’età di tre anni sono andato nell’allora Tanganyika (oggi Tanzania continentale). Il prozio che mi ha cresciuto, Ahmad Basheikh bin Hussein, era un insegnante ed era stato mandato in Tanganyika nella regione di Mbeya, in un villaggio molto remoto, per creare la prima scuola. Poi nel 1952 tornammo in Kenya, dove fu inviato a Faza, un’isola dell’arcipelago di Lamu. Anche lì per creare una scuola. Rimanemmo per tre anni ed è a Faza che ho iniziato la scuola primaria. Poi andammo a Lamu per altri due o tre anni. Da lì fu mandato in un villaggio del Kenya chiamato Takaungu, a circa 40 miglia a nord di Mombasa. Ho finito lì le scuole primarie, ma sono stato bocciato all’esame finale. Così ho deciso di non andare più a scuola.
Avere vissuto in così tanti posti nell’infanzia l’ha influenzata?
Sì, sicuramente, mi ha aiutato a comprendere tutti i differenti dialetti swahili e mi è stato successivamente molto utile per nell’insegnamento e nella ricerca sulla lingua e letteratura swahili. È stato molto arricchente.
Come ha proseguito la sua istruzione?
Dopo aver fallito l’esame finale delle scuole primarie e aver lasciato la scuola, mio fratello più grande Sheikh Abdillahi Nassir, che faceva parte del movimento per l’indipendenza dagli inglesi, fece di tutto per farmi tornare a scuola. Ma io ero così arrabbiato con il sistema scolastico, visto che non avevo passato l’esame, nonostante negli anni precedenti fossi sempre tra i primi quattro più bravi della classe, che non ne ho voluto sapere. Essendo un ex professore di scuola e avendo una libreria fornitissima a casa, mio fratello mi diede dei libri da leggere. Così mi sono formato, grazie ai semi piantati da mio fratello e dai suoi libri. Leggendo ci si può anche fare un’istruzione da autodidatta. Il famoso scrittore irlandese Bernard Shaw una volta disse: “la scuola è per chi non sa istruirsi da sé”. Lo ripetevo sempre ai miei studenti all’Università di Lipsia. Lo studio si fa fuori dalle università, in classe si danno solamente le linee guida. Per questo è fondamentale leggere il più possibile.
Quando ha cominciato a sentirsi attratto dalla poesia?
Non potevo sfuggire alla poesia perché provengo da una famiglia di artisti, poeti, cantanti, scrittori, musicisti, intagliatori e pittori. Il prozio che mi ha cresciuto era oltre che un maestro, anche un poeta. Ho imparato le basi da lui. A Mombasa, negli anni 50, durante il colonialismo, vi era una stazione radio chiamata Sauti ya Mvita (La voce di Mombasa) in cui mio zio conduceva una trasmissione e vi leggeva le sue poesie. A casa, prima di andare in radio, me le dava da leggere. Mio fratello maggiore, Ahmad Nassir Juma Bhalo, che purtroppo è morto cinque anni fa, era anche lui un famoso poeta a Mombasa. Anche lui mi ha influenzato parecchio. Non posso poi non citare il poeta swahili del 1800, Muyaka bin Haji, che oltre che essere un poeta, faceva anche parte della resistenza di Mombasa contro il sultanato Omanita.
Quando ha iniziato l’attività politica?
Ho iniziato a fare politica quando ero ventenne. Anche la politica era di famiglia, la tradizione famigliare racconta che fossimo già impegnati nella lotta contro i portoghesi nel quindicesimo secolo. Più recentemente, mio fratello più grande Abdillahi Nassir, quello che mi portava i libri da leggere, oltre a essere un professore e uno Sheikh islamico faceva parte del movimento di liberazione dal colonialismo inglese. Quando però arrivò l’agognata indipendenza, si rese conto che il nuovo governo di Jomo Kenyatta non stava mantenendo le promesse e si occupava solamente dei propri interessi, quindi lasciò la politica per occuparsi di editoria e di religione. Come editore lavorò per l’Oxford University Press per le edizioni in swahili. Fu lui che mi fece comprendere l’importanza di essere un attivista. Trai libri che mi dava, vi erano anche libri politici.
Uno in particolare le cambiò la vita, mi racconta quale?
Fu un libro di Fidel Castro che si chiama La storia mi assolverà. Mi ha detto “leggi questo libro”, pur non sposandolo appieno. Il libro mi cambiò talmente, che divenni di estrema sinistra e mio fratello, che mi aveva dato il libro, non riusciva più a portarmi su posizioni politiche più moderate. L’opera di Castro mi fece comprendere come il movimento di liberazione dal colonialismo e per la libertà fosse stato tradito da Kenyatta.
In quel momento iniziò quindi a fare politica?
Sì, ho cominciato, negli anni 60, a fare politica con l’opposizione. Kenyatta era diventato sempre più dittatoriale e il suo vicepresidente Jaramogi Oginga Odinga aveva tentato di cambiare le cose dall’interno, ma quando comprese che Kenyatta non ascoltava nessuno, si era dimesso e aveva fondato un partito d’opposizione, il Kenyan People Union. Nell’istante in cui lessi il manifesto di quel partito, ne rimasi affascinato e decisi di fare politica con loro, era il 1966. Quando il governo di Kenyatta divenne sempre più repressivo, incominciammo a fare attività clandestine. Così ogni mese incominciai a scrivere dei pamphlet antigovernativi. Nel 68, dopo il settimo pamphlet, intitolato “Kenya, dove stiamo andando?”, fui imprigionato per colpa di un compagno che tradì e fece il mio nome.
La poesia la ha aiutata negli anni della prigione a superare l’isolamento?
Nei tre anni di isolamento, non potevo parlare nemmeno con la famiglia, non potevo leggere, né avere nulla con me. Per uno innamorato dei libri, non potere leggere è stata la cosa più difficile. Dopo sei mesi però mi diedero il Corano, ma in arabo. Non potevo parlare in teoria nemmeno con i guardiani, ma con due di essi divenni amico. Ogni tanto parlavamo perfino di politica, visto che loro concordavano con la mia analisi sulle sorti del Kenya. Uno di loro mi aiutò e mi diede una matita di nascosto e così cominciai a scrivere poesie sulla carta igienica, l’unica carta che avevo. La poesia è stata una delle cose che mi ha aiutato a uscire mentalmente indenne dall’isolamento in prigione. La prima era la mia convinzione che quello che avevo fatto e scritto fosse giusto e che lo avrei rifatto appena uscito, se la situazione non fosse mutata. Anche la mia fede islamica mi ha aiutato molto. Nell’Islam, perdere la fede e la speranza è un peccato gravissimo. Se uno fa del proprio meglio, Dio ti aiuta. Il terzo fattore è stata la poesia. La poesia è stata estremamente terapeutica per me.
Dopo la prigione è andato in esilio?
Sono stato in prigione per tre anni, in isolamento, a Nairobi e quando sono uscito la situazione era così difficile, che sono dovuto fuggire in esilio. Prima in Tanzania, dove ho insegnato per sette anni all’Università di Dar es Salam e poi sono andato a Londra. Lì ho lavorato prima alla BBC Swahili e in seguito come Editore Capo della rivista Africa Events, per poi tornare all’università, insegnando alla London University. Oggi vivo in Germania, perché dopo Londra mi ha chiamato l’università di Lipsia, dove ho insegnato per 15 anni. Ora vivo ancora in Germania, ad Amburgo, ma sono in pensione. Sono passati 32 anni prima che potessi tornare a viaggiare in Kenya liberamente.
Nel 1982 è stato uno dei fondatori del Comitato per il Rilascio dei Detenuti Politici in Kenya, me ne parla?
Nel 1982, quando ero a Londra, ci fu un tentativo di colpo di stato per rovesciare il governo keniano. Nonostante, io e gli altri oppositori, con cui collaboravo all’estero, fossimo compatti nell’opporci al regime illiberale keniano, non appoggiammo nemmeno i militari. Questo, perché il continente africano era già pieno di pessimi governi militari, ancora più repressivi dei politici corrotti. Noi volevamo innescare un processo democratico. Ma la reazione del governo keniano fu durissima e imprigionò chiunque pensasse fosse un suo oppositore, al di là del fatto che avesse o no collaborato al tentato golpe. Alcuni oppositori furono uccisi o non furono mai più trovati. Allo scrittore Ngugi wa Thiong’o, che insegnava all’Università di Nairobi e che era a Londra in quei giorni per lanciare il suo nuovo libro, fu consigliato di non tornare per evitare di essere arrestato. Così con lui e altri, formammo nel 1982 il Comitato per il Rilascio dei Detenuti Politici in Kenya. Cinque anni dopo formammo anche il movimento politico United Movement for Democracy in Kenya. Il Kenya era un alleato dei governi occidentali, quindi noi non ci rivolgevamo solamente ai keniani, ma anche agli europei e americani, per fargli comprendere cosa faceva il loro alleato. Venni nominato coordinatore del gruppo. Per questo motivo non potei più tornare in Kenya fino al 1994, quando il multipartitismo fu rintrodotto nel paese. Prima di quella data, per vedere la famiglia dovevamo incontrarci tutti in Tanzania.
È più efficace fare politica con i pamphlet o con la poesia?
I pamphlet sono più efficaci per mobilitare le persone, soprattutto nel farli circolare. Noi eravamo fuori e per essere efficaci bisogna avere persone nel paese. Per fortuna vi era un movimento clandestino, chiamato MWAKENYA, acronimo in swahili di Muungano wa Wazalendo wa Kenya (Unione dei Patrioti per il Kenya), organizzato in modo tale che una cellula non conoscesse l’altra e che solamente i capi conoscessero l’esatto organigramma del gruppo. Questo per minimizzare il rischio di che il governo ne arrestasse i membri. I pamphlet erano distribuiti illegalmente in Kenya. La poesia è complementare, ma meno efficace nel breve periodo dei pamphlet, soprattutto in un paese come il Kenya, in cui la poesia era orale. Per essere efficace doveva essere sentita dal vivo o in radio, al massimo registrata. Quindi aveva la sua importanza, ma era minore.
Avendo sempre composto poesia seguendo le forme metriche classiche, cosa ne pensa dell’innovazione nella poesia swahili, dell’utilizzo di forme diverse da quelle tradizionali?
I versi sciolti o liberi nella poesia swahili furono introdotti negli anni 60 soprattutto da studenti dell’Università di Dar es salam. Ma prima di allora la poesia swahili era scritta o composta nelle forme classiche con metro e rima. All’inizio vi era molta opposizione dei tradizionalisti che dicevano che non era poesia swahili, ma inglese scritta in swahili. Anche molti poeti in versi liberi riconoscono di essere stati in parte influenzati dalla poesia inglese e che, per esempio, le prime cinque o sei poesie della raccolta Kichomi di Kezilahabi erano originariamente state composte in inglese. Io, all’inizio, ero tra quelli che difendevano la poesia classica, ma oggi i versi liberi sono accettati. L’argomento principale dei sostenitori dei versi liberi è che la poesia tradizionale era originariamente così. Che la poesia era all’inizio legata alla musica, canzoni orali e che non era così rigida come la poesia classica in termini di metro e rima, il che è vero. Ma per noi, quindi, questo era un modo di portare la poesia swahili indietro, e non svilupparla.
Lo pensa ancora?
Penso che pur essendo giusto dare la possibilità di usare i versi liberi, si possa innovare anche i versi tradizionali, che da parecchio tempo vengono utilizzati quasi sempre solo nella stessa forma, la tarbia, ossia le quartine con i versi divisi al centro e rime interne e finali. Ma anche rimanendo nell’ambito del metro e della rima, si possono innovare stilisticamente e tematicamente le forme tradizionali, che sono varie, io stesso nelle poesie di Sauti ya Dhiki l’ho fatto. Comunque, considerando che originariamente la lingua e la letteratura swahili si è sviluppata lungo la costa est-africana ma poi si è diffusa enormemente nelle aree interne, anche oltre l’Africa orientale, sarebbe stupido da parte nostra attaccarci alla purezza linguistica e alla tradizione, specialmente nella letteratura, tutto muta e molti di coloro che oggi scrivono in swahili non sono madrelingua swahili, portando con sé il proprio bagaglio linguistico e letterario. Questo succede a tutte le lingue del mondo, non si può confinarle, soprattutto quelle di grande diffusione, un po’ come l’inglese anche il swahili ha diverse varietà.
Cosa suggerirebbe ad un giovane poeta swahili?
La poesia è un fuoco che arde dentro, o lo si ha o non lo si ha. Quindi dico sempre che non saprei cosa suggerirgli. Non si può insegnare a qualcuno a essere un poeta. Al massimo si può dare qualche consiglio per rendere la poesia ancora più bella.
Quali sono i poeti swahili emergenti da leggere oggi?
Per fortuna ce ne sono molti, uno che amo è Mohamed Ghassani Alcuni non sono conosciuti perché non sono stati pubblicati o tradotti. Ve ne è un altro in Tanzania che si chiama Dotto Rangimoto, e il keniano Jacob Ngumbao, che ha vinto di recente il premio Safal Cornell per la letteratura swahili. Vi sono anche poetesse donne che meritano di essere seguite.
Mi recita una sua poesia?
Non cedo:
Non cedo ciò che professo, non cedo, perché dovrei?
Non cedo sia quel che sia, l’afferro a tutti i costi
Non cedo son io e questo, qui o altrove
Finché nella tomba entrambi saremo sepolti
Non cedo pur se punito con pene d’ogni sorta
Non cedo pur se attratto con grasse promesse
Non cedo quel ch’è giusto, mai ritrarrò la mano
Anche preso a morsi, la mano non ritraggo
Non cedo non vi sfido, come voi affermate
Non cedo e il motivo lo capite, brava gente
Non cedo la mia convinzione rispetto assai
E abbandonarla credo, mai sarà possibile
Non cedo, accetto l’arrivo d’ogni male
Non cedo sebbene dicano che credo a ciò che non è
Non cedo o sarei qual mosca; non son così
Insisto non son così, e Dio mi sia d’aiuto
15 marzo 1970


