Daniela Matronola
A proposito di “Specie domestica”

La vita e il pendolo

La nuova raccolta poetica di Roberto Masi parte dalla domanda delle domande: che cos'è la vita? E, di conseguenza, che cos'è la morte? E la risposta è un alternarsi di emozioni

Roberto Masi è tornato in libreria a fine 2024 con un piccolo libro di versi a dir poco sconvolgente, Specie domestica, raccolta toccante ospitata dalla collana che Francesco Terracciano, a sua volta poeta, cura per la casa editrice Terra d’Ulivi, salentina, con sede a Lecce (58 pagine, 10,50 Euro). Si tratta di quarantotto componimenti in versi fulminanti in cui l’autore pone a sé stesso e a noi, attoniti lettori, la domanda delle domande: potremmo semplificarla così, cos’è la vita?, per rettificarla subito in: cos’è la morte?

Il “metodo” che Masi adotta per condurre la sua indagine, per nulla ingenua, per nulla scontata negli esiti, è la costante analogia, il parallelismo “trascendentalista” (verrebbe da dire), tra le specie animali e l’animale degli animali che è la specie umana. Ed è chiara la premessa filosofica, direi di carattere ambientale, che sta dietro all’indagine e prim’ancora alla questione: l’economia locale, cioè l’ambiente domestico, che vuol dire non soltanto il mondo fisico, dunque la Natura dentro il cui perimetro tutto accade, quanto la geografia che tutti ci comprende, ci tiene insieme e in comunicazione costante, cioè la casa, che è vita ed esistenza, ed è mondo, è paesaggio, ma appunto è proprio casa, ed è famiglia.

Riflettendoci su a libro chiuso (il quale va bevuto senza freni: con crescente adesione etologica e con viva partecipazione speculativa), prima di evocare ed enunciare vicende umane e domestiche, per l’appunto, prima di immergerci nello sgomento del dolore, del buio, della notte, della perdita, giustamente Masi ci “allena”, per così dire, attraverso l’evocazione di duelli e sfide che, in una chiave che va da La Fontaine a Blake, tiene legati a filo doppio un gatto e una gazza: rispetto al gatto che sfodera sfuggevolezza e bellezza, sinuosità e astuzia, il poeta/filosofo ci associa alla gazza, e solo molte pagine dopo, guardando negli occhi chi sta leggendo, ma (lo si capisce subito) specchiandocisi, dunque riconoscendovi sé stesso, egli indica e pronuncia, la gazza sei tu.

Ciò che colpisce nel dettato di questo libro è il moto ondulatorio-pendolare che regge la logica del discorso, anzi muove la sintassi di questa poesia: una versificazione che oscilla e vacilla tra un angolo all’altro del periodo, meglio: del suo senso, incidendo con lama implacabile proprio quel centro sintattico in cui i due estremi si passano il capo.

L’oscillazione è data anche (in una chiave che fa pensare ai simbolisti e alle ombre oscure della magia nelle fiabe) da questo dialogo di fatto, ineludibile e insidioso, tra la gazza e il gatto.

Gazza e mantello si posa e piega
come fosse un inchino.
La cavalca il felino
sul fianco
le scintilla una sbarra come
spada che fende il sentiero lunare. […]

Come in ogni quadro fortemente simbolico che si rispetti, improvviso appare il cervo. Animale maestoso. Il cervo col suo palco e col suo verso profondo, il bramito, è un emblema di quel sacro che è immanente nella Natura e allea tutti gli esseri viventi tra loro. Allora la insidiosa convivenza smette di essere confronto fra duellanti e diventa alleanza tra vivi, coro delle loro voci e puntuale svolgimento dei compiti e dei ruoli che in ognuno per natura si sviluppa e si svolge poiché parla lo spirito che in ciascuno soggiace.

È proprio a questo punto che, con un movimento di macchina malandrino e legittimo allo stesso tempo, il poeta ci mette di fronte all’interrogativo che rivela il sillogismo di fondo: siamo gazza o gatto? Sembra che la risposta suggerita sia: ambo…tre. Dov’è l’uomo? Nello sguardo di chi guarda. Nel visore del versificatore. Nell’occhiale che sa vedere oltre il fumo, oltre il velo. E che sa associare il quotidiano umano al mestiere di vivere dell’animale. Un’analogia che si regge su una sintassi governata dall’insiemistica: il senso, lo si diceva qualche riga sopra, si muove da un termine a un altro, e chi legge viaggia su questo filo.

Scopriamo d’essere di fronte a un discorso sul destino, anche da intendersi come sorte che a un certo punto abbranca i nostri cari e rispetto alla quale noi siamo imbelli cioè subito arresi senza rendercene conto. Crediamo di avere margini per arrabbiarci e lottare, ma nulla di tutto questo ci è realmente possibile.

Nel caleidoscopio di immagini con cui Roberto Masi ci investe per permetterci di cogliere la verità di fondo del nostro essere e del nostro modo d’esserci ci imbattiamo anche in volatili e insetti simbolici che hanno nella poesia una storia, una tradizione, alludendo ad esempio al mondo di immagini di Emily Dickinson.

È evidente che Masi si riallacci consapevolmente e anche con affetto a tutta una tradizione quando caschiamo nella sonorità, nella fonetica danzante, di un pugno di componimenti posti al centro della raccolta, i quali poi attestano a dispetto di tutto una genuina felicità del poetare conquistata proprio qui da questo autore che dismette i panni tortuosi dello speculatore e abbraccia una certa linearità del poetare.

C’è, cioè, tutta una evocazione della tradizione, nei suoi oggetti cari e ricorrenti, nelle sue immagini, per l’appunto, che per noi sono luoghi familiari in cui proviamo piacere, forse conforto, a ritrovarci, cioè in quello spazio di confidenza che, oltre ad essere la koinè oikonòmicos del lettore con l’autore, è l’agorà umana. E questa felicità del poetare, subito condivisa da chi legge come fosse un abbraccio o un grande girotondo (intorno al mondo, cantava Endrigo), strizza l’occhio a un animo fanciullesco grazie alla musica della rima: sembra quasi di imbattersi in quei rimari che hanno allietato le nostre letture in versi a scuola, quando appunto eravamo bambini, proprio quel poetare fresco e in apparenza facile, soprattutto molto fonetico, che “lamenta” Paolo Di Paolo in Rimembri ancora – in realtà c’è tutto un gusto, fanciullesco per l’appunto, nel far schioccare la poesia col suono delle parole, con le rime che scattano come trappole, ma in modo per nulla ottuso né prevedibile, viceversa sempre con quello scarto di senso che muove al paradosso, che scoperchia il senso inviandolo in direzione ostinata e contraria verso un valore nuovo e sorprendente.

L’eco che si sprigiona aggancia persino D’Annunzio o Whitman e risuona in sonorità classiche.

Come in Pianto Antico o nel 5 maggio, parlando qui di morte, la musica delle rime e l’andamento ritmico hanno un loro modo di medicare l’orrore e il senso di resa e di inutilità di fronte a qualcosa che distrugge tutto – cioè divampa solamente per distruggere, direbbe qui Eduardo. Anche l’accostamento per analogia col mondo animale, con la vita degli uccelli, così in bilico, ben più visibilmente di noi, nella corrente della precarietà quotidiana che è poi l’essenza della vita reale, è una insperata e riluttante forma di consolazione che passa per l’accettazione di ciò che è e in un certo senso deve essere, con la stringente necessità di ciò che ci spetta e ci deruba.

Nella seconda parte della raccolta acquisiamo proprio la sensazione netta che le immagini e i paesaggi siano proprio ora sotto gli occhi e nel cuore del poeta, il quale li “traduce” nella lingua della sua poesia che, mentre è attaccata alle cose, tende però anche a trascenderle e a universalizzarle: cioè il poeta solleva lo sguardo dal fiero spettacolo e va oltre per assumerne pienamente il senso e restituircelo, e poi farlo volare.

Fiocca ad esempio il verbo piegare / piegarsi: più che un prostrarsi, esso indica un rimettersi dell’umano al destino, a ciò che accade, è una forma di accettazione – e la verità da accettare è che ogni speranza è persa. Perveniamo alla sconsolazione: è la notte, il buio, il luogo (o)scuro dove tutto accade, si chiarisce, si svela, e tutto prende corpo, diventa oggetto e notizia. È nel silenzio che tutto si svolge. Quando torna il giorno, ahinoi il silenzio scompare e tutto torna caotico e indiscernibile. Il contrario di ciò che professava Hegel, se ci pensiamo. Ma più potente, e arnese decisamente dotato di una funzione-chiave in questa lingua, torno a dire, è la parola che transita, il termine trascorrente: Nel mio sguardo sgomento sei tu, il termine centrale si riferisce allo sguardo e a quel tu? Il dispositivo non è alternativo ma cumulativo, la questione non è aut aut ma sive sive e il prefisso non è in- o dis- ma è cum.

Ecco dunque che i nostri fratelli dal mondo animale, spariti nei componimenti centrali per lasciare posto a vicende umane, domestiche e familiari, riappaiono come d’incanto in coda in un pugno di versi che evoca il Bardo.

Un piccolo libro, un grande miracolo. Come suggerisce Francesco Terracciano, direttore di collana, nella breve e illuminante postfazione, Specie domestica è erbario e bestiario il cui «risultato più confortante è il continuo sottrarsi dell’uomo ad ogni tentativo di reductio ad unum, il pendere e il perdurare di tante cause diverse e uguali nel vuoto del Tempo e nell’assenza di un Giudice – La gazza sul cedro ti vede brillare; / si getta, t’afferra, t’osserva e scompare. / La coda piumata, la veste allungata: / la gazza sei tu».


La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.

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