Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

La casa di Zemeckis

Il nuovo film di Robert Zemeckis, “Here” patisce due scelte di fondo del regista: l'uso dell'intelligenza artificiale e la camera fissa. È la dimostrazione che non basta la tecnologia per emozionare!

Probabilmente è capitato a tutti di chiedersi chi mai avrà vissuto nella casa che stiamo abitando, personalmente è una domanda che mi sono fatta spesso a causa di troppi traslochi. Here, il nuovo film di Robert Zemeckis che si basa sull’omonimo fumetto di Richard McGuire, come dice il titolo racconta il “qui” di una casa americana costruita all’epoca dei coloni, più o meno alla fine del XVIII secolo, e segue le vicissitudini dei suoi abitanti fino ai nostri giorni, mentre il tempo scorre negli infiniti “adesso” dei secoli. Perché la storia inizia ancora prima della costruzione della casa, prima della nascita dell’America: nella scena iniziale compaiono addirittura i dinosauri, un omaggio del regista al suo maestro Steven Spielberg e al suo Jurassic Park.

Lo scorrere del tempo e l’alternarsi delle generazioni è un leitmotiv ricorrente nella filmografia di Zemeckis: basta pensare alla trilogia di Ritorno al futuro dove il protagonista rivede i suoi genitori ancora giovani prima che lui nascesse. Ma negli anni Ottanta del secolo scorso bastava affidarsi a bravi truccatori per invecchiare o ringiovanire gli attori. Quarant’anni dopo,, le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale consentono di fare l’inimmaginabile, mostrando allo spettatore il quasi settantenne Tom Hanks nello splendore dei suoi diciott’anni. Accanto all’attore prediletto di Zemeckis che interpreta il protagonista Richard Young (nomen omen), compare Robin Wright nei panni di Margaret, prima fidanzata e poi moglie. Entrambi appaiono adolescenti, poi giovani sposi, poi coppia matura e infine decisamente vecchi.

Oltre all’uso dell’intelligenza artificiale, Here si distingue da tutte le pellicole di Zemeckis per una scelta che si manifesta subito dopo il prologo dei dinosauri e l’entrata in scena dei nativi americani e dei coloni: per 104 minuti il regista usa una sola telecamera e un’unica inquadratura. È tra le pareti che delimitano il salotto della casa, col camino acceso e una grande vetrata che si affaccia su una strada percorsa prima dalle carrozze e poi dalle auto, che si svolge tutto il film.

L’intelligenza artificiale combinata con un’inquadratura fissa, due scelte drastiche. Con quali risultati? Inizialmente lo spettatore è sorpreso, rivedere ventenne un attore famoso e amato come Tom Hanks e accanto a lui Robin Wright che salta, ride e balla come tutte le teenager, produce un formidabile effetto straniante. Ma, dopo la sorpresa iniziale, si avverte la difficoltà del regista di trovare il ritmo giusto per un film che deve fare i conti con vincoli tanto forti e la ripetitività delle situazioni rappresentate da un’unica inquadratura all’interno del medesimo spazio finisce per annoiare.

In realtà Zemeckis è consapevole che non può limitarsi a filmare una sequenza lineare che va dal XVIII al XXI secolo e infatti decide di spezzare la narrazione del presente andando avanti e indietro nel passato. Ma fa anche di più: lo schermo viene spesso suddiviso in più riquadri che presentano simultaneamente eventi avvenuti in periodi diversi oppure la stessa situazione vissuta in epoche diverse.

Ma nonostante gli sforzi del regista, il film appare troppo spesso un esercizio fine a se stesso, destinato a verificare gli effetti delle tecnologie utilizzate più che a suscitare l’empatia dello spettatore.

Here ci rivela che non basta la tecnologia, per quanto sorprendenti siano le sue applicazioni, a creare un film capace di emozionare lo spettatore e farlo entrare in una storia. Eppure il tema c’è ed è evidente fin dall’inizio: è la memoria, la memoria dei luoghi e delle persone che ci hanno preceduti, Zemeckis insegue le impronte lasciate nello stesso luogo dalle generazioni che si succedono, è insomma un film sullo scorrere del tempo, “as time goes by”, come cantava Sam in Casablanca.

C’è un solo momento di autentica emozione ed è la scena finale, quando finalmente la macchina da presa esce dalla casa svuotata e venduta e inquadra dall’esterno, attraverso la vetrata che ha fatto da sfondo a tutta la pellicola, i due coniugi ormai vecchi, insieme per l’ultima volta in quella che è stata la casa della loro vita. E allora Margaret, che ha l’Alzheimer, improvvisamente ricorda: «Io qui ho vissuto». Ecco, bastano quattro parole per colpire al cuore lo spettatore, per dire che “qui” è stato il luogo di una vita intera, la vita di Margaret e di Richard e delle persone che in quella stanza hanno amato e sono morte. Se Zemeckis non si fosse lasciato incantare dagli effetti speciali, se avesse usato l’intelligenza del cuore più di quella artificiale, allora Here sarebbe stato tutto un altro film.

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