A proposito de "L'Europa che non è stata”
Il sogno di Dubček
Succedeoggi Libri ripropone la storica intervista di Renzo Foa a Alexander Dubček sulla “via democratica” al socialismo che apre uno squarcio sul mancato sostegno dell'Europa al progetto riformista di Gorbaciov
Nell’agosto del 1968 con la mia famiglia mi trovavo in Cecoslovacchia, perché quell’anno i miei genitori decisero che si doveva vedere la casa di Franz Kafka, il cimitero ebraico e la Torre dell’orologio a Praga. Siamo stati in città più di una settimana. Con me c’era la mia più cara amica e per noi, due teenagers che si affacciavano alla politica, fu un’esperienza irripetibile. C’era nell’aria qualcosa di magico: il clima era davvero speciale, entusiasmante. La primavera di Praga era in piena fioritura! La gente, si vedeva, era felice, piena di speranza, affollava i viali, le piazze, i parchi e si parlava non stop di rivoluzione, di socialismo, di nuovo corso, di grandi cambiamenti che avrebbero trasformato il corso della storia. Tutti scambiavano opinioni con tutti; soprattutto erano i giovani i protagonisti, giovani di tutto il mondo, di tutti i colori, di tutte le etnie che in grandi assembramenti, in assemblee permanenti, giorno e notte, discutevano di come il socialismo “dal volto umano” potesse diventare realtà.
«Il rinnovamento veniva realizzato con mezzi pacifici, con il sostegno non violento al buono, e l’opposizione non violenta al cattivo, nel rispetto dei rapporti internazionali esistenti… A quel programma aderivano spontaneamente con entusiasmo, tutto il partito, tutte le nostre nazionalità, tutta la nostra gente; la giovane generazione era stata letteralmente trascinata nella corrente rivoluzionaria dell’edificazione socialista. Chi non ha visto, saputo, vissuto, sentito difficilmente può capire quale forza morale e ideale avesse cominciato a mutarsi in forza materiale» (il corsivo è mio). Queste furono le parole con cui Alexander Dubček, l’artefice di quel miracolo e successivamente la vittima di esso, ne descrisse le caratteristiche nella bellissima e struggente intervista di Renzo Foa su l’Unità del 10 gennaio del 1988, venti anni dopo la sua distruzione e ripubblicata ora dalla casa editrice Succedeoggi Libri (L’Europa che non è stata, 120 pagine, 16 Euro, nella foto accanto al titolo, Alexander Dubček e Renzo Foa a Praga in occasione dell’intervista).
Le parole di Dubček erano vere ed è interessante notare come in più punti dell’intervista il leader cecoslovacco faccia riferimento al “sentire” come elemento fondamentale dell’esperienza politica. E infatti, veramente solo chi aveva vissuto anche per poco, come me, quella magia poteva capire. Ero ancora al liceo e quell‘esperienza fu davvero formativa. Quella rivoluzione, perché di rivoluzione si trattò, di cui fui testimone, mi ha influenzato per il resto della vita. Una rivoluzione pacifica, non violenta, creativa, piena di entusiasmo che sperammo potesse cambiare il mondo. Una rivoluzione che sembrava attuare il provocatorio slogan del maggio francese dello stesso anno: “Siamo realisti, chiediamo l’impossibile!”. E che fu stroncata sul nascere. L’avere vissuto in prima persona l’invasione sovietica che qualche tempo dopo distrusse quel sogno di cui ero stata testimone mi fece profondamente riflettere. Ho ripensato molte volte a quei momenti negli anni a venire. Anche a quando, nella serata tra il 20 e il 21 agosto 1968 con la mia famiglia, in viaggio tra Praga e Budapest, incontrammo i carri armati del blocco di Varsavia che invadevano la Cecoslovacchia e che ci deviarono verso strade secondarie. Allora non capimmo e pensammo a manovre militari, ma fummo impauriti dall’imponenza e dalla quantità dei mezzi pesanti in circolazione. E dalla poca pazienza dei militari che li controllavano.
Quando, nei giorni a venire, a Budapest da una radio occidentale apprendemmo quello che era successo fu un momento molto duro. Anche mio padre che non era vicino alle idee comuniste ne fu scosso dopo quello di cui era stato testimone. Ma fummo la mia amica ed io ad essere le più disperate. Ci chiedemmo ripetutamente cosa ne fu dei tanti cittadini e dei tanti giovani con cui avevamo familiarizzato nelle strade, nei parchi, nelle piazze di Praga: il loro sogno fu infranto insieme alle tante speranze che in esso avevano riposto.
E anche quello di una parte del mondo e dei tanti giovani e no che avevano seguito con apprensione le vicende che quella rinascita avrebbe comportato se lasciata vivere e prosperare. Un evento che forse avrebbe potuto cambiare il corso della storia e che non fu approfondito e scandagliato con la dovuta attenzione. Circa venti anni dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, Renzo Foa, grande giornalista come pochi ce ne sono stati nel nostro paese per onestà intellettuale, professionalità e scomparso troppo presto, nel gennaio del 1988 riportò a galla su l’Unita, organo dell’allora Partito Comunista Italiano, con un’intervista ad Alexander Dubček, quei fatti. E lo fece in un momento cruciale della politica internazionale, quello della perestroika nell’Unione Sovietica di cui Gorbaciov stava tentando di cambiare il volto attraverso un processo di democratizzazione del socialismo reale.
L’intervista ripubblicata da Succedeoggi Libri porta il significativo titolo L’Europa che non è stata. È un piccolo volume di grande valore non solo come testimonianza storica dei fatti della Primavera di Praga del 1968, ma anche di ciò che accadde nel 1988 con il progetto riformatore di Gorbaciov che non fu sostenuto con sufficiente vigore dall’Europa. È inoltre uno sguardo sull’oggi di un occidente incerto e titubante sul da farsi. Rappresenta un invito a superare le diversità delle concezioni sociali e a recuperare la solidarietà per far crescere e prosperare l’occidente in pace e armonia.
Il volume si apre e si chiude con due significativi interventi: quello di Stefano Folli e quello di Andrea Graziosi (rispettivamente prefazione e postfazione) nei quali si muovono in modo accorato e tragico le due figure dei protagonisti di quella intervista: Renzo Foa e Alexander Dubček. Ambedue uomini di grande spessore morale e intellettuale, fino in fondo credettero nell’ideale di un “socialismo dal volto umano” prima che questa speranza si dissolvesse con il crollo dell’Unione Sovietica. Del tentativo di Gorbaciov l’occidente si disinteressò e non offri alcun sostegno al suo progetto, cosi come fece nel 1968 nei confronti di Dubček. Ecco perché è essenziale riflettere su quegli errori oggi. Per non commetterli di nuovo.
Al cuore del pamphlet c’è il rapporto tra democrazia e socialismo. Dubček, che nel 1968 era il segretario di Partito comunista cecoslovacco, racconta che nella società civile «si avvertiva chiaramente il divario tra ciò che si poteva essere e ciò che in realtà si era, si approfondiva un abisso, si sentiva che le possibilità reali del socialismo non si sfruttavano a sufficienza, che gli interessi sociali, collettivi e individuali andavano perdendo la capacità di influenzare lo sviluppo… il potere va esercitato con l’autorevolezza delle idee e non con la forza della violenza e della repressione… La democrazia socialista dovrebbe aprire quotidianamente ampi spazi a tutti i livelli perché la gente possa riflettere ed esprimere le sue opinioni… il popolo, la massa dovrebbe avere il diritto di scegliere i propri rappresentanti, di controllarli, di revocarli».
Con queste parole, l’artefice di quella rivoluzione, l’uomo dagli occhi buoni e dalla presenza gentile descrisse quello che avrebbe potuto essere e non fu. Vent’anni dopo la riproposizione di questa interviste nel 1988, Renzo Foa in uno degli articoli contenuti alla fine del volume e pubblicati allora dalla rivista liberal, dopo avere citato Dubček come il primo grande riformatore del socialismo, ignorato dai più e soprattutto dall’universo socialista – che afferma di non avere niente da rimproverarsi e che se il Pcus avesse avuto allora la direzione di Gorbaciov la repressione sovietica sarebbe stata impensabile – parlando di quell’intervista scrive: «Le risposte, ma anche le domande avevano seguito un unico filo, quello di raccontare la Primavera come un’occasione persa, di descrivere il lungo periodo trascorso da allora come una fase di pericoloso ristagno, di arretramento, di involuzione e di affidare il testimone che era ancora rimasto nelle mani dei protagonisti del “nuovo corso” alla Perestroika di Gorbaciov. Insomma era l’idea che fosse possibile un comunismo diverso, un comunismo non stalinista, quello che si chiamava “comunismo riformatore” per il quale le virgolette erano necessarie perché si trattava di un’astrazione. Che questa fosse un’idea sbagliata lo si capì appieno solo dopo. Allora, il ritorno di Alexander Dubček scosse l’Europa, provocò un’emozione, dette l’idea che la storia alla fine era capace di riconoscere torti e ragioni. Sembrava ancora che dal socialismo – cosi com’era stato nella realtà – potesse venire qualcosa di nuovo, sembrava che l’arrivo di Gorbaciov potesse chiudere un pezzo della storia e salvarne un altro». Cosa successe dopo lo sappiamo tutti, ma certamente lo sguardo di Renzo che mori poco dopo queste riflessioni, rimase rivolto, almeno a livello di sentire, come fa notare Graziosi alla fine della sua postfazione, all’«esperienza che lo aveva così intensamente coinvolto nei decenni più importanti della sua vita».