Sergio Buttiglieri
Al teatro Comunale di Pietrasanta

Arpagone genovese

Ugo Dighero è Arpagone, il celebre "Avaro" di Molière in un'edizione che aggiorna e attualizza gli spasmi e l'immoralità della borghesia francese seicentesca

È sempre un piacere rivedere l’Avaro di Molière. Il grande intramontabile capolavoro dello scrittore francese. Esiste una tradizione, nel teatro italiano, per la quale Molière è un autore di farse, farsette, meccanismi, situazioni, trovate farsesche, che sul palcoscenico funzionano sempre: le purghe e i clisteri del Malato Immaginario; i calori e le voglie del giovane innamorato travestito da medico; e la cassetta di Arpagone, naturalmente, il delirio dello spilorcio derubato della sua unica ragione di vita. È il Molière conosciuto dal nostro pubblico. Quello a suo tempo messo in scena dai famosi Gandusio, Petrolini, Benassi, Peppino De Filippo. Con il malato immaginario, l’avaro, il medico per forza: tipi già pronti, personaggi di sempre, e battute capaci di rinnovarsi restando uguali a sé stesse, come nei canovacci della Commedia dell’arte.

Questa volta, Molière è tornato in scena a Pietrasanta, grazie alla Fondazione della Versiliana, ora presieduta da Paola Rovellini, che ha l’obiettivo di rafforzare il rinnovamento del Festival della Versiliana destagionalizzandola e rendendola attiva, e con qualità, 365 giorni all’anno. Un polo culturale che agisce tutto l’anno, che gestisce anche la Stagione Teatrale invernale del Comunale, per un pubblico ampio e traversale come quello che abbiamo visto nella sala tutta esaurita del teatro di Pietrasanta.

Dunque, questo Avaro con la regia di Luigi Saravo (coprodotto dal Centro Teatrale Bresciano, dal Teatro Nazionale di Genova, dal Teatro Stabile di Bolzano e dagli Artisti Associati di Gorizia) è ora in Tournée a Varese, alla Venaria Reale di Torino, e a Bergamo. È stato intelligentemente attualizzato, grazie allo scenografo Lorenzo Russo Rainaldi, portandolo ad atmosfere anni ‘70 in cui Arpagone, il bravissimo Ugo Dighero, assieme a Mariangeles Torres, ci hanno divertito a più non posso in dialogo con i due figli scavezzacollo che pensano in tutti i modi di non rispettare i dogmi utilitaristici del padre.

Lui, anche grazie alla sua cadenza genovese, che nell’immaginario collettivo viene da sempre associato a una certa “tirchiaggine” stereotipata, acchiappa il pubblico in sala in maniera irresistibile, rendendo verosimile il suo personaggio che ha sé stesso al centro del mondo. E credibili e divertenti, nonostante gli inevitabili stereotipi previsti dalla parte, gli altri personaggi: Mariangeles Torres, la ruffiana Frosina; Stefano Dilauro ed Elisabetta Mazzullo, i figli di Arpagone; Cristian Giammarini, il faccendiere; e tutti gli altri.

Arpagone è un avaro piagnucoloso, lamentoso, a metà fra il Don Abbondio in tenuta di casa e certi “show” da finto vecchio cadente di Mario Soldati. Il suo grande momento non è al monologo; è al finale, proprio nello stesso istante in cui la tetra e misteriosa commedia molieriana tradisce sé stessa, e gioca con le agnizioni inaspettate e i riconoscimenti a catena. Qui la farsa trova di che nutrirsi, trova il pane dell’inverosimiglianza, e finalmente si ride ulteriormente nelle ultime scene folgoranti.

L’Avaro di Molière tra tutte le sue commedie, è la più misteriosa e, attualizzata da Luigi Saravo, ci è stata resa con atmosfere vicine ai nostri giorni. Con queste grandi vetrine piene di cose a lui preziose, quanto inutili, continuamente dislocate in varie posizioni durante tutta la commedia. Arpagone è più grande del vizio che lo fa esistere. È un vecchio paradossale: non un vegliardo pavido e incerto, ma un amministratore avveduto, energico, implacabile, dalla prontezza di riflessi fulminea. Molière ne ha fatto un capofamiglia borghese, un padrone di casa dispotico, malato e vicino a morire, ma anche un usuraio di professione, perentorio nelle decisioni, rapidissimo nel penetrare i segreti degli altri. Un vecchio innamorato della gioventù pronto a rifarsi una vita. Questo avaro che ci viene descritto come una carcassa, è il solo di una famiglia disordinata a stare veramente in piedi.

Se Molière ha fatto della vecchiaia di Arpagone un’equivoca immagine di lutto nella quale va a nascondersi l’analogia di comportamento esatto e inesorabile fra il denaro e la morte, allora Molière non ci ha scritto una farsa di ieri. Ha scritto un copione di “oggi”.  E questa piacevole produzione che ha incantato il pubblico pietrasantino lo ha ben evidenziato. L’opera di Molière continua a esercitare un immutato fascino nei lettori e negli spettatori di oggi anche grazie a queste riuscite e necessarie riletture registiche. Molière è stato un’incarnazione integrale del teatro, essendo egli autore, attore, regista delle sue opere e amministratore della compagnia che, per prima, metteva in scena.

Non dimentichiamoci che Molière ha conosciuto il successo presso il pubblico e anche a corte, dove ottenne la protezione di Luigi XIV, il re Sole. I contemporanei lo considerano il più grande attore comico del tempo e il più grande autore comico di tutti i tempi. Molière fu inserito, evento assai raro, fra il novero dei classici dai suoi stessi contemporanei.

Quindi, come succede con le opere di Shakespeare, siamo felici di imbatterci in ogni stagione teatrale con questi mostri sacri del teatro europeo. Purché si abbia la capacità di rileggerli intelligentemente, rispettando il copione, ma al contempo immergendoci nella confusione del nostro tempo. Spesso troppo intrisa di futili digitalizzazioni, che fanno perdere la capacità di percepire la presenza reale degli attori sul palcoscenico. Che con la loro mirabile, dissimulata, concentrazione hanno la preziosa capacità di farci assaporare il loro racconto, reinterpretato ogni sera, per noi spettatori reali presenti in sala. Questa è la preziosa essenza del buon teatro che ogni volta ci stupisce ed emoziona.

Facebooktwitterlinkedin