Giuliano Capecelatro
Tempi moderni

Apologia della disubbidienza

I social ormai controllano le nostre vite al cento per cento: tutto è postato e registrato. L'unica soluzione è la disubbidienza. Prendete il caso di un ragazzo che voglia marinare la scuola...

Un mio nipotino… nipotino, insomma, si fa per dire; un cristone di un metro e novantuno centimetri, nuotatore provetto, portiere tanto temerario da spaventare i suoi stessi compagni di squadra, consumatore indefesso di birrette, che si porta appresso con indolenza, tenendole per il collo della bottiglia che indolentemente dondola, come indolentemente porta alla bocca per un sorso di tanto in tanto… per farla breve, questo mio nipotino prossimo alla maggiore età ha preso un “impreparato” in matematica, e scatenato così un minidramma familiare. Motivo: non aveva portato il compito da casa.

Orgoglioso e tenace, si è subito rifatto. E la pace è tornata in famiglia. Un otto e mezzo in Storia. E, meglio ancora, a distanza di poche ore, un nove e mezzo in Lingua e letteratura italiana. Risultato che mi ha lasciato a bocca aperta: tra vasche coperte a rana, parate spericolate, e infusioni di birrette, non gli ho mai visto sfogliare un libro, non dico Manzoni o Nievo, archeologia per la generazione Z o Centennials che dir si voglia, ma almeno Camilleri o, tiè, persino Fabio Volo, fosse solo per dare una sbirciatina, almeno a eventuali illustrazioni.

Il punto, comunque, non sono i risultati scolastici. Neppure la restaurata pax domestica. E tanto meno la palese avversione a compulsare testi che non siano quelli strettamente legati allo studio. Il dato interessante, su cui riflettere davvero, è che successi e insuccessi sono stati comunicati in tempo reale, via whatsapp, all’autorità genitoriale. La mamma, presa da comprensibile batticuore, mentre riordinava le carte nel suo studio. Il papà o facente funzione, colto da comprensibile disappunto, mentre metteva mano a un’importante relazione.

In parole povere, succede che l’esplosione dei social, o come altro si vogliano definire i trabiccoli digitali che ci tengono in costante collegamento, con il mito conseguente della comunicazione istantanea, ha creato anche, in tanto bendidio, il pervasivo canale di informazione Tutta la scuola minuto per minuto.

Istituzione scolastica e istituzione parentale sono ormai connesse ventiquattrore su ventiquattro. Il frugoletto non risulta presente alle lezioni? Subito parte l’avviso: che i genitori sappiano, rassicurino l’allarmato corpo docenti o, in caso di arbitraria defezione dell’allievo, preparino il rampollo fedifrago a severi provvedimenti su tutte e due le sponde.

Un incubo. Per un uomo che ha vissuto altre stagioni, altre atmosfere, convinto inoltre di detenere il record mondiale ufficioso di assenze ingiustificate, la peggiore delle distopie. E mi chiedo: ma ‘sto povero ragazzo, con tutti gli occhi addosso, se una mattina gli saltasse l’uzzolo di scantonare – è umano –, deviare dal retto cammino che lo conduce senza deviazioni da casa in aula, per fare quattro passi tra le bellezze della città, andare in una sala giochi o rifugiarsi in un parco con una ragazzetta, cosa dovrebbe fare? Insomma, per dirla con tutti i crismi del perbenismo, se volesse marinare la scuola e farsi un po’ di affari suoi, a quale santo dovrebbe rivolgersi?

Oh, parliamo di un’attività che ha una solida e ramificata tradizione. Va avanti da secoli. In tutti gli angoli del pianeta. Quindi corrisponde a qualcosa che quell’uomo in fieri che è lo scolaro considera come irrinunciabile prerogativa del suo stato. Ha anche una sua dignità culturale. Per dire: la storia di Pinocchio, celebrata in tutto il modo, comincia proprio così. Lui e Lucignolo marinano la scuola.

Certo, il vivace burattino, da buon borghese in pectore, si concede al finale edificante e rientra nei ranghi. Ma il primo impulso, quello istintivo, naturale, era stato quello di cacciare la scuola dal suo orizzonte.

Così diffuso, questo vizietto, da generare un albero lessicale con radici in ogni regione e paese. Termine obsoleto, nella sua commovente patina ottocentesca, forse il primo a entrare in circolo, è bigiare, di impronta settentrionale e sospette ascendenze germaniche. Poi l’asettico marinare, appunto.

Più icastica Roma con fare sega, mentre Napoli sbandiera fare filone, ripreso in buona parte del meridione. Il catalogo è ampio. Dal fare forca fiorentino all’inquietante impiccare di Bergamo. I più ricchi di inventiva risultano i siciliani, che a Gela parlano di caliarsi la scuola, a Trapani usano stampare, e a Mazara del Vallo preferiscono fare sicilia, va’ a capire perché.

Pratica senza frontiere. Dalla Francia (l’école buissonière, di sicuro protocollare ed estraneo al più tagliente e beffardo argot dei minorenni) al Giappone (saboru, anche questo in odore di ufficialità) ogni nazione ha la sua formula più o meno pittoresca.

Questo controllo capillare di ogni movimento dell’alunno sembrerebbe, dunque, aver messo fine ad un’epoca. Ma dal maremagno di Internet affiorano birichini suggerimenti, peraltro vecchi come Matusalemme, per bigiare, marinare, salare e saltare la scuola: accusare febbri, malesseri, lancinanti mal di pancia. Robetta, palliativi che non hanno l’aura dell’avventura di una decisione scaturita dalla libera iniziativa dell’individuo. Un umiliante, ipocrita compromesso con le soffocanti istituzioni (come dire, a bocca storta: «andrei tanto volentieri a scuola, se non mi bloccasse a letto questo malanno»).

Ma così l’adolescente, cioè quel campione umano che sta procedendo verso l’adultità (vocabolo da brividi, ma che l’Accademia della Crusca registra e tollera) verso la forma uomo fatta e finita, viene scippato della possibilità di temprare, affinare, modulare al meglio la propria personalità con una precisa assunzione di responsabilità.

Giuro, non lo dico per esaltare a posteriori la personale scioperataggine degli anni scolastici. Ma ragioniamo: sottoposto a controllo incessante, il garzoncello scherzoso si ritrova ad essere passivamente soggetto ai diktat di due autorità conniventi, senza che possa effettuare una scelta davvero cosciente. Ubbidisce perché non ha alternativa. Un embrione di robot, a dirla tutta.

La disubbidienza, invece, è un atto di grande valore, una maestra fondamentale. Ti abitua a quel continuo esercizio di scelte che è la vita, che non puoi eludere. Hic Rhodus, hic salta: impari a calcolare il rischio, le implicazioni, le conseguenze del tuo gesto.

Pensate se tutti i soldati del mondo, per una divina ispirazione, facessero le fiche ai loro superiori avidi di scontri sanguinosi e inebrianti momenti di gloria («darei un braccio per un quarto d’ora di battaglia», mi confidò un tempo un capitano, con il mio tacito augurio di procurarsi anche un paio d’ore). Che fine farebbero le guerre e i ben pasciuti mercanti d’armi?

Lo so, detto da un vecchio gaglioffo, in perenne conflitto con ogni forma istituzionale ed ogni parvenza di autorità, questa apologia della disubbidienza ha poco senso, è fasulla.

Allora cerchiamo l’etichetta con il marchio doc, il pensiero di chi gode di stima universale. Erich Fromm, per esempio, psicologo e psicanalista di fama, che alla disubbidienza ha dedicato un saggio (in Italia pubblicato da Mondadori). Scrive il nostro: «La disobbedienza, nel senso in cui si usa il termine, è un atto di affermazione della ragione e della volontà». E più avanti: «Per disobbedire non è necessario che l’uomo sia aggressivo o ribelle: basta che abbia gli occhi aperti, che sia sveglio».

Che sono appunto quelle facoltà che l’invadenza ossessiva e totalizzante dei social, da whatsapp a facebook e android passando per l’orrido X, cortile virtuale di furibonde liti tra comari, tendono ad amputare. La disubbidienza può, di conseguenza, diventare un momento importante.

Se lo psicanalista non vi convince, proviamo a vedere che ne pensava un fine scrittore come Italo Calvino, che, un po’ calvinisticamente, la giustificava «solo quando diventa una disciplina morale più rigorosa e ardua di quella a cui ci si ribella».

Ora, ragazzi, potete avere in uggia Fromm, troppo sessantottino, potete anche far spallucce al rigore morale di Calvino, ma non commettete l’errore di sottovalutare la potenza di fuoco dei social. Soprattutto, non crediate mai alla loro innocenza di semplici go-between, candidi propalatori di messaggi altrui.  Tutto sono, tranne che innocenti.

Senza voler aderire a qualsivoglia tesi complottista, il loro peccato originale è l’ansia di controllo del nostro mondo. E i social sono il perfetto cavallo di Troia della sorveglianza ubiqua, della raccolta puntigliosa, onnicomprensiva di informazioni sulle nostre insignificanti esistenze.

Non sarà un caso che il loro sviluppo avvenga all’interno degli apparati militari. Sarà forse un caso che Facebook abbia visto la luce il 4 febbraio 2004, sulle ceneri di un progetto di raccolta dati planetario partorito e svezzato dal Pentagono?

Torniamo a noi. Che devo fare col mio nipotino extrasize e birrettaro? Lasciarlo alla mercè della Santa alleanza scuola-genitori o mormorargli inverecondamente all’orecchio: «Non dare retta a mammà e al preside. Se non te la senti di andare a scuola, domani fai sega»? Che atroce dilemma morale.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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