Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Angelina o Maria?

Il film su Maria Callas di Pablo Larraín con Angelina Jolie è emozionante malgrado la protagonista non sembri adatta a interpretare la divina. Tutto merito del carisma del personaggio?

«La vostra voce è perduta. Si trova in cielo e su milioni di dischi». Il dottor Fontainebleau ha lo sguardo ansioso di Vincent Macaigne, fissa negli occhi Maria Callas e non le concede l’illusione della speranza. Sa che il suo tempo sta per finire e che il suo cuore si fermerà per troppi farmaci e troppo dolore. Avverrà il 16 settembre 1977, nella sua casa al 36 di Avenue Georges Mandel.

Maria, il nuovo film del regista e sceneggiatore cileno Pablo Larraín passato in concorso a Venezia, è un paradosso, perché nessuna attrice ci appare più lontana di Angelina Jolie dalla “divina” per antonomasia, con cui ha in comune solo una cosa: la fama planetaria. Eppure questo paradosso alla fine funziona e in certe scene addirittura commuove.

La Callas è un evergreen del cinema e a misurarsi col mito inarrivabile della lirica ci avevano già provato in molte, fra le altre Faye Dunaway, Fanny Ardant, Monica Bellucci, Luisa Ranieri. Larraín fa una scelta in apparenza sconcertante, chiamando la fin troppo famosa star di Hollywood per completare la sua trilogia dedicata alle icone tragiche femminili del Novecento (oltre alla Callas, Jackie Kennedy e Diana Spencer). Per realizzare la pellicola ritrova Steven Knight, lo stesso sceneggiatore con cui aveva lavorato per il film su Lady Diana. E Knight gli scrive una storia convincente – attraverso i capitoli di un’intervista immaginaria che darà origine a un film – che racconta l’ultima settimana di vita di Maria che non è più “la Callas”, ma solo una donna fragile tormentata dai fantasmi del passato, a cominciare da Aristotele Onassis, l’amore della sua vita.

L’ossessione della voce che non è più quella di un tempo e in cui lei non si riconosce, l’ha costretta a lasciare da quasi cinque anni i palcoscenici mondiali e ad assumere farmaci devastanti che controllano la depressione, ma le distruggono il fisico già debilitato dall’anoressia. Maria non conosce altre risposte perché lei era viva solo sul palcoscenico, quando la sua voce dal timbro inconfondibile mandava in estasi platee e loggioni e “la Callas” diventava Tosca, Norma, Violetta, Carmen, Madama Butterfly.

Solo due persone condividono la solitudine dei suoi ultimi giorni, i fedelissimi che la accompagnano da sempre: il maggiordomo Ferruccio e la cuoca Bruna, loro sono, come lei stessa ammette, la sua famiglia, padre, madre, fratello e sorella, i figli che non ha avuto (Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher qui misurati e convincenti).

Mi sono chiesta perché un film che affronta ancora una volta un personaggio tanto conosciuto e raccontato, per di più impersonato da un’attrice che appare evidentemente fuori parte, alla fine funzioni ed emozioni. C’è un primo elemento che cattura lo spettatore ed è la fotografia che restituisce le atmosfere di quel tempo e quella luce sgranata e un po’ nebbiosa che fa subito anni Settanta. È in quella Parigi crepuscolare che Maria passeggia, beve champagne a La Coupole, incontra persone adoranti, in apparenza è normale, umorale e arrogante come sempre, in realtà è in uno stato di costante alterazione, insegue i suoi fantasmi e immagina di raccontare la sua vita a un giovane regista che vuole girare un film su di lei e che si chiama Mandrax, come il sedativo ipnotico che assumeva. Larraín affida così il filo conduttore del film a un personaggio che in realtà è una allucinazione, com’era la vita della Callas nei suoi ultimi anni. E questa è una scelta originale e azzeccata.

Oltre alla fotografia, sono notevoli la scenografia, che ricostruisce l’opulenza melodrammatica dell’appartamento parigino della cantante, e ovviamente i costumi di Massimo Cantini Parrini, che ancora una volta dà prova della sua bravura dopo il magnifico Le déluge di Gianluca Jodice. Con Favino e Rohrwacher segnalo anche il cammeo di Valeria Golino nel ruolo della sorella maggiore Yakinthī che le raccomanda di chiudere col passato. Ma quella porta Maria non poteva chiuderla perché nel passato era tutta la sua vita.

Ho tenuto per ultima la protagonista. L’impegno quasi doloroso che ci mette Angelina Jolie per rappresentare gli ultimi giorni di un personaggio di tale portata è evidente in ogni sguardo e in ogni gesto, in ogni inquadratura e in ogni posa. Purtroppo l’uso eccessivo del playback rende forzate molte scene nonostante la cura estrema del trucco e si vede che l’attrice, regista e produttrice statunitense ha studiato per immedesimarsi totalmente in un mito che nessun artificio di Hollywood potrà mai eguagliare. Eppure, nonostante i limiti evidenti, c’è qualcosa di inspiegabile e di più grande che si impossessa di lei nel corso del film e che finisce per toccare profondamente lo spettatore. Cosa sia lo scopriamo nella carrellata finale che precede i titoli di coda: Larraín incolla frammenti di filmati amatoriali in cui Maria, quella vera, ci appare nei brevi attimi di una travolgente felicità. E a noi non resta che rimpiangerla, con quel nodo in gola che sempre arriva quando ascoltiamo la sua voce.

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