Al Teatro Carlo Felice di Genova
Vaudeville Nino Rota
Damiano Michieletto ha messo in scena una versione senza tempo del "Cappello di Paglia di Firenze" di Nino Rota. Uno spettacolo segnato da un ritmo scenico travolgente e dalla "leggerezza" della musica
Il Teatro Carlo Felice di Genova ha appena messo in scena con successo Il Cappello di Paglia di Firenze con le indimenticabili sonorità di Nino Rota e la pregevole regia minimalista di Damiano Michieletto. Questa “Farsa musicale in Quattro atti” debuttò per la prima volte nel 1955 con tante polemiche nei primi 40 anni: i direttori artistici che lo mettevano in cartellone venivano accusati di passatismo dagli alfieri della nuova musica. Negli ultimi 30 anni per fortuna lo scenario è cambiato radicalmente. L’opera passa da un teatro all’altro con buona frequenza. Non suscita più polemiche. Conquista anzi l’ammirazione unanime di critica e pubblico, che ne elogiano soprattutto la piacevolezza.
Però, giustamente, il regista Damiano Michieletto, emerso sulla scena internazionale come uno dei rappresentanti più interessanti della giovane generazione di registi italiani, ha saputo valorizzare lo spettacolo evidenziando che, come ci ricorda Enrico Girardi, sotto la leggerezza della superficie ci sono il fuoco di una invenzione inesauribile e la parodia scanzonata di chi gioca con i mille modi di essere del teatro d’Opera del passato, servendosi di Rossini, Puccini, Lehar e persino di Wagner, come pedine di una magica dama.
Nino Rota è spesso giustamente associato alle famose colonne sonore da lui composte tra gli anni ’30 e gli anni ’70. In particolare, quelle dei film di Fellini: 8 e mezzo, Giulietta degli Spiriti e Amarcord. Questo suo Cappello di Paglia di Firenze non a caso fu ripreso da registi del calibro di Strehler e Pier Luigi Pizzi, diventando uno dei titoli più amati del compositore. Anche La Scala quest’anno lo ha messo in scena con successo con la talentuosa e acclamata regia del giovane Mario Acampa che ha egregiamente lavorato con i giovani dell’Accademia.
La musica di Nino Rota – ci ricorda qui il Maestro Concertatore e Direttore Giampiero Bisanti – in alcuni momenti sembra quasi “danzare”. È capace di evocare una miriade di emozioni, dal divertimento più sfrenato alla malinconia più sottile, passando per momenti di grande lirismo che disegnano suggestioni molto evocative. Questo grazie anche a un cast di grande qualità come Marco Ciaponi nel ruolo di Fadinard, Nicola Olivieri nei panni di Nonancourt, il basso baritono di fama internazionale Paolo Bordogna che impersona Beaupertuis Emilio e Benedetta Torre nel ruolo di Elena e Giulia Bolcato in quello di Anaide per non parlare del famoso mezzosoprano Sonia Ganassi nella piacevolissima parte della dirompente Baronessa di Champigny.
Le scene di Paolo Fantin, in accordo con la regia di Michieletto, ci mostrano una piattaforma bianca continuamente rotante con pareti mobili e tante porte che si aprono e si chiudono. Memoria perfetta del vaudeville dove le storie si intrecciano in situazioni borghesi fatte di intrighi, di cose dette alle spalle, di tradimenti, in cui le porte servono a nascondere e svelare segreti.
Questa piattaforma cambia efficacemente la geometria della stanza seguendo il ritmo incalzante dell’opera: ecco che si trasforma nella casa dello sposo in cui arrivano gli ospiti all’imminente matrimonio capitanati dal suocero burbero contrario all’unione dei due giovani sposi. E la vicenda si complica con l’irruzione di un’improbabile coppia di amanti clandestini alla ricerca del cappello di paglia divorato dal cavallo dello sposo. E ciò genera una rocambolesca ricerca di una copia di questo cappello per non far ingelosire il sospettoso marito. E proprio nel ritmo dell’opera si trova il suo cuore comico, nella pulsazione continua e sempre più frenetica, nella tenacia via via più folle del protagonista Fadinard.
Per Michieletto il carattere di quest’opera è prevalentemente brillante e scanzonato come ha saputo fare benissimo anche Rossini. Questo spettacolo funziona esteticamente come un meccanismo a orologeria. Non c’è nessun realismo, non c’è epoca o spazio definito. Come in una “folle giornata” mozartiana sembra che ci debba essere un matrimonio e poi emerge un problema che diventa una valanga travolgendo tutti (compresi noi spettatori, irretiti da questo delizioso compulsare della vicenda) fino al lieto fine conclusivo.
Al ritmo drammaturgico si coniuga alla perfezione quello del discorso musicale, nel quale Rota sfoggia una ricchissima gamma di sfumature che ancora oggi è riuscita perfettamente ad affascinare il pubblico genovese che ha riempito con piacere questo iconico teatro inaugurato nel 1828, ricco di ulteriori storie architettoniche novecentesche, a cominciare dall’intervento del 1964 di Carlo Scarpa per poi arrivare a uno degli indimenticabili capolavori di Ignazio Gardella, Aldo Rossi e Fabio Reinhart che lo re-inaugurarono nel 1991.