Un classico da recuperare
Il mio amico Jim
Lettura (personale) de "L'isola del tesoro" di Robert Louis Stevenson. Dove ci sono più realtà e vita adulta di quanto di solito si creda...
«La vita non si può prevedere», scriveva un accorato Franz Kafka nella Lettera al padre; padre che, assorbito dalle sue imprese commerciali, poco o punto si impegnava a capire quel figlio problematico. È così: chi riesce a prevedere alcunché? Lo sapeva fin troppo bene il giovane praghese, sperso nei suoi labirinti, allucinato dagli insetti sguinzagliati dal subconscio.
Tu vai avanti, anno dopo anno, su un binario prestabilito, lungo quell’acquietante tragitto etichettato come routine; poi, paf!, d’incanto ti rispunta davanti una persona, alla mente si riaffacciano episodi, storie. La memoria riporta a galla un vecchio romanzo. E la prospettiva di colpo cambia. Non la prevedeva di certo, la vita, l’adolescente Jim Hawkins, quella sera in cui, nella locanda di famiglia Ammiraglio Benbow, si presentò un mendicante cieco come il destino, il malvagio e cencioso Pew. E tutto ebbe inizio…
Avevo sette, otto anni quando lessi L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson. Rimasi conquistato. Amavo molto Tom Sawyer; più avanti avrei conosciuto e apprezzato Huckleberry Finn. I tre, in realtà quattro, moschettieri alimentavano la mia fame di imprese eroiche, fortunatamente svanite, e decisamente ripudiate, nel corso degli anni.
Ma con Jim, giovanissimo protagonista del romanzo, nacque un sodalizio che il tempo non avrebbe scalfito. Tanto che, uomo ormai maturo (così usa dire, se uno ci crede), ripresi in mano la storia (Adelphi aveva meritoriamente messo in giro una nuova edizione). Fascino inalterato.
Altra acqua sarebbe passata sotto i ponti. Poi, davanti a un piatto di fagioli, con in testa l’ultima bolletta del gas da pagare, ecco che sorge l’immagine di un’isola, ballonzolano i ghirigori di una mappa, prende forma la fantasia di un tesoro sepolto. Un’illuminazione: ecco perché.
Napoli, città strutturalmente mitopoietica, lo era, forse, ancora di più negli anni Cinquanta. Uscita a pezzi – psicologicamente e materialmente, uno scenario ininterrotto di macerie – dal conflitto mondiale, ripiegata su se stessa, imbozzolata in un asfittico campanilismo, esaltato dal berlusconismo ante litteram del sindaco Achille Lauro. Il mito, la favola, il racconto erano un’indispensabile valvola di sfogo. Dal mare baluginava la promessa di sconfinata libertà. Jim mi prese per mano e mi fece salire a bordo dell’Hispaniola.
Un caro amico, Jim. Ma, devo confessarlo a mio disdoro, se con Jim condividevo sogni e patemi dell’età – non è mica rassicurante finire in mezzo a un branco di brutti ceffi senza scrupoli –, la mia ammirazione fu calamitata dal capo di quella poco raccomandabile ciurma, lo zoppicante e beffardo Long John Silver, finto cuciniere e vero pirata.
In un ragazzo un abbaglio del genere si scusa con un’alzata di spalle: un peccato di gioventù, fisiologicamente naturale; lo si sgrida, magari, ma lo si capisce: passerà, passerà. Ma, e qui la confessione si fa scabrosa, ancora oggi è Long John il membro dell’umanità stipata su quel vascello per cui provo simpatia e, perché no?, affetto per quelle poche ore passate insieme sull’Hispaniola e poi sull’isola.
La sua sagoma altalenante, privo com’era di mezza gamba, incrociava e si sovrapponeva ad alcuni strani esemplari che all’epoca popolavano il centro antico: il contrabbandiere dalla gamba offesa, pronto a squagliarsi a piccoli ma rapidi salti tra i portici dei Tribunali con la sua mercanzia, non appena si stagliava a distanza una divisa. ‘O saponaro robivecchi, che raccattava rimasugli di passate grandezze e spesso consentiva a famiglie disagiate di mettere insieme pranzo e cena. L’artigiano malmostoso che, nel buio insondabile del basso, modellava pastori per i fasti natalizi di san Gregorio Armeno.
A fianco di Jim, gomito a gomito con i malviventi, partecipavano alla crociera persone rispettabilissime, fior di gentiluomini. Il capitano Smollet, per dire. Il facoltoso e ciarliero cavalier Trelawney. L’inappuntabile e schietto dottor Livesey. Autentici campioni di rettitudine e abnegazione. Modelli da segnare a dito.
Ed era proprio qui il loro limite, la caratteristica che, soprattutto per il buon dottore, li rendeva sospetti. Replicavano un po’ troppo pedissequamente, infatti, l’ambiente che circondava il bambino; una costellazione adulta, un universo del “tu devi” che sbandierava regole e divieti. Con il corollario, all’esterno del libro e della cerchia familiare, di monache sadiche che funestarono gli anni di asilo e delle prime due elementari.
In quell’epica e tormentata traversata, tra congiure e ammutinamenti, Long John, col variopinto pappagallo issato su una spalla, incarnava e suggeriva la ribellione all’ordine costituito, l’ammiccamento ad una incontrollata libertà, l’avventura verso un ignoto, che non poteva non prefigurarsi sfolgorante come oro zecchino.
Un filibustiere, Long John, una canaglia, non c’è dubbio, ma anche un adulto non privo di attrattiva, che sapeva conquistare la simpatia e la fiducia dell’adolescente, inconsapevolmente in cerca di figure di riferimento cui ispirarsi. Jim stimava, apprezzava, ed ovviamente stava dalla parte del capitano Smollet e del dottor Livesey. Ma non riusciva a sottrarsi all’infernale seduzione del navigato briccone.
Robert Louis Stevenson era un formidabile affabulatore. Tusitala, “narratore di storie” appunto, lo avevano battezzato gli indigeni di Upolu, nelle isole Samoa, che ascoltavano rapiti i suoi racconti orali. Qui trascorse gli ultimi quattro anni di vita (mori appena quarantaquattrenne), in cerca di sollievo per i suoi polmoni malati.
Mostrò in giovinezza un’indole pacatamente ribelle: figlio di un ingegnere, si iscrisse a ingegneria, che presto abbandonò per laurearsi in giurisprudenza e dedicarsi esclusivamente alla letteratura. L’isola del tesoro (uscita nel 1883), incentrata sul giovane Hawkins, che vive un’esperienza-limite che lo matura, rientra nei canoni del romanzo di formazione.
Se si assumono come atti di fede certi criteri classificatori, la storia appartiene alla cosiddetta narrativa per ragazzi. Forse perché è un racconto di avventure; forse perché il protagonista è un giovincello; forse per la semplicità, l’immediatezza dello stile (ma dove Stevenson non è semplice, immediato? I Samoani lo sapevano bene), che rende accattivante e piacevole per chiunque le coinvolgenti vicissitudini dell’Isola.
Ma, a guardare in profondità, il personaggio centrale risulta proprio lui, il corsaro, il reietto, il vilain Long John, personificazione del Male, certo molto blanda; ambiguo- seducente e spietato- come Orson Welles ne Il terzo uomo, affascinante pellicola firmata da Carol Reed. E guarda caso, Welles interpretò il cattivo John Silver sullo schermo nel 1972.
L’ombra di Long John si allunga nel tempo. Fornisce la materia su cui Tusitala costruirà i suoi capolavori. Anticipa, il bieco pirata zoppo, le tortuosità del dottor Jekill, pronto a trasformarsi nel perfido Hyde (Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde è del 1886); prepara il terreno per la lotta senza quartiere, e alla fine mortale, tra i due fratelli nel Signor di Ballantrae (1889). Lavori in cui lo scrittore scozzese (con sangue anche francese) mette in scena la doppiezza dell’animo umano.
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La vita non si può prevedere. Ma si può, si deve, in qualche modo governare; e magari qualcuno prova a irreggimentare anche le vite degli altri. Nella realtà quotidiana, che in teoria scorre sotto le insegne della morale comune, Long John è un perdente: un guitto perfido relegato a calcioni nella cambusa. Il “tu devi”, così sembrerebbe a prima vista, prevale. Come forse è giusto che sia: che accadrebbe se tutti fossimo ribelli?
Ma dalla cambusa delle nostre coscienze, quello zoppo maligno, sfrontato, ci scruta sornione con un ghigno sinistro, mentre il pappagallo fa da monocorde colonna sonora gracchiando suoni confusi. Quasi ci dicono: signorsì, regole ci vogliono nella vita, lo sanno anche i pirati. Basta non prenderle troppo sul serio, non trasformarle in pesanti catene. E ancora ci invita, il vecchio Long John, a prendere il largo con lui, a tuffarci nell’imprevedibile, con negli occhi la visione di un’isola, di quel fantastico tesoro sepolto che sognammo nell’infanzia.
La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.