A proposito de "Lo splendore"
Splendore e assoluto
Il romanzo di Pier Paolo Di Mino, primo di un ciclo di sette, affonda le radici nelle grandi narrazioni bibliche e pre-bibliche, senza mai perdere di vista la concretezza del racconto e dei personaggi
Quattro parole quattro su Lo splendore – I. L’infanzia di Hans (Laurana editore) – di Pier Paolo Di Mino, che sta suscitando in giro interesse e attenzione critica, – un libro bello, ma difficile da definire, perché è insieme diverse cose. Proviamoci. È un’opera complessa, stratificata, accessibile a più livelli, – di ispirazione vagamente “modernista”, sul genere di quei grandi libri dell’inizio del secolo scorso, – di Proust, Joyce, Ermann Broch, Musil, ecc. – che cercando di superare i limiti del naturalismo ottocentesco, approdano a una forma di romanzo completamente nuova, strabordante dalle forme canoniche, introspettiva ma anche spirituale, scientifica, simbolica…
Ecco, Lo splendore si ispira vagamente a quella tradizione (ma vi differisce, nella sostanza, perché cancella di netto la figura dello scrittore, lo scrittore che domina la sua materia, riflette su se stesso, sulla società e sul mondo). Ne Lo splendore c’c’ uno scrittore, è evidente, uno scrittore avvertito, attrezzato, che muove i fili, ma agisce fuori della pagina, per così dire, calandosi nei personaggi e annullandosi in essi. Lo splendore affonda le radici nelle grandi narrazioni bibliche e pre-bibliche, nella Cabala, come ci avverte Giulio Mozzi – curatore della collana – nella lucida e appassionata postfazione, che è un ottimo viatico alla lettura del romanzo, dove parla di tante cose – fra l’altro dei personaggi, – “personaggi che da subito mi si sono presentati come vivi, quasi materialmente presenti davanti a me”. Ecco, anche io ho vissuto questa esperienza, anche a me alcuni personaggi di questo libro hanno dato un’impressione profonda di verità, di evidenza realistica – insieme a una tensione verso l’assoluto: Hans Dorè, sua madre Rosa, la pia levatrice Clea, la curatrice ambulante Hermine, il socialista Joseph Idel… e perfino il brutale Gustav, gestore di bordelli, soldato, vagabondo nella Francia della Comune di Parigi insieme a un altro strano tipo, tale Gérard de Nerval, che si chiama come celebre poeta ma non è lui, è solo un fatto di omonimia, e tale stratagemma stilistico-narrativo, è proprio di carattere postmoderno, mi viene da commentare.
Opera-mondo debordante, fluviale, nelle sue quasi 700 pagine (ma ricordiamo che questo libro è solo un tassello di un’opera ciclopica in sette volumi, legata a un certo progetto artistico-letterario, Il libro azzurro – di cui Veronica Leffe cura l’iconografia) – un’opera magmatica, digressiva, corale, polifonica, affollata di personaggi, Lo splendore – I. L’infanzia di Hans, narra, in questo primo capitolo della saga, l’infanzia di un eletto. Hans Dorè, appunto, il quale nasce nel 1911 alla periferia di Berlino, al freddo e al gelo, proprio come Gesù Cristo, da una “ragazzina-madre”, Rosa: – Hans, destinato a “salvare il mondo”, a diventare, forse, un «vero re» – uno tzadik, secondo la tradizione ebraica, ovvero un essere capace di mettere gli umani in contatto con la presenza divina nel mondo. L’autore ne ricostruisce a poco a poco l’intera genealogia, diretta o indiretta – raccontando tutti i personaggi che hanno preparato e accompagnato il suo avvento sulla Terra. Va detto che anche nelle pagine più misticheggianti, esoteriche, anche fra digressioni filosofiche e rimandi a testi sacri, la narrazione raramente stagna, sotto l’insegna del realismo psicologico – grazie a una lingua metamorfica, capace di cambiare a seconda del personaggio, della situazione, del genere: in alcuni momenti si presenta lirica, poetica (Di Mino, ricordiamo, è anche poeta) – in altri è perfino ruvida, per esempio nelle parti riguardanti Gustav, in cui egli commette i suoi brutali omicidi. Il personaggio di Gustav – nonno adottivo di Hans, quello che occupa uno spazio prevalente nel libro, – è di straordinaria profondità-ambiguità, e anche lui ha una sua paradossale, tardiva vocazione all’assoluto… un’altra parte che mi ha molto colpito, è la lunga malattia di Hans assistito dalla madre e da Clea, verso la fine del libro, durante la quale il bimbo, febbrile, delirante, lottando fra la vita e la morte, vede un bambino che forse non c’è, una creatura umbratile e sfuggente che lo attira verso un punto morto, una terra di nessuno, dalla quale faticosamente miracolosamente ritorna. E alla fine “sopravvive a una di quelle malattie – come ha scritto Andrea Tarabba su Tuttolibri – che, in letteratura, portano consapevolezza di sé e conferiscono una patina messianica”.
Resta da chiarire il significato del “libro azzurro” che compare la prima volta tra le mani di Idel, il quale lo acquista in libreria per regalarlo a Hans: “Infine Idel si accorse di un libro appoggiato al mappamondo: era azzurro, rilegato in tela, e sul dorso era impresso un nodo dorato. Non c’era il nome dell’autore né il titolo”. Per Hans sarà fondamentale l’incontro con alcune persone e con alcuni libri, ma soprattutto con questo libro senza titolo, infinito, in cui c’è tutta la storia del mondo; un libro fatto di immagini, che si presentano diverse ad ogni lettore; ma alcuni, vi scorgeranno solo pagine bianche. Proprio come succede, o può succedere, con Lo splendore…
Concludendo sembra quasi, leggendo il romanzo del Di Mino, che l’autore abbia letto e digerito mezza biblioteca Adelphi, come più d’uno ha scritto, insomma che l’autore abbia letto davvero tutto, – eppure non si ha mai la sensazione di un libro solo libresco, solo cartaceo, ci sta tanta vita dentro.
La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.