A proposito di "Demone custode"
Demone del desiderio
Il nuovo romanzo di Paolo Sortino è un fluire di pensieri (e desideri?) dentro la vita di una “voce narrante” che ripercorre i suoi rapporti con la madre e, in parte, col padre
Demone custode, il libro più recente pubblicato da Paolo Sortino (Interzona, Polidoro Editore, 123 pagine, 15 Euro), è interessante fin dal titolo e a partire anche dalla sua sostanziale inclassificabilità, o meglio a partire dalla necessità, dettata proprio dal testo e dalla sua natura, di correggere implacabilmente l’incasellamento cui per probabili ragioni merceologiche è stato d’ufficio assegnato.
Il demone custode del titolo, viene da pensare prima di immergersi nella lettura, sarà l’opposto dell’angelo custode. E poi inevitabilmente viene da ripensare ai cosiddetti consiglieri catalani o fraudolenti della triste vicenda di Romeio da Villanova, o anche ai semplici partigiani della mente di veronesiana memoria. Però questa è solo una parte del senso d’aver scelto un titolo difficile, così scandaloso, e poco reader-friendly. C’è palpabilmente un immanente alito di provocazione. Ma è tutto meno ovvio, leggendo, di come sembra.
Il libro è indicato come romanzo. Non è affatto un romanzo. Lo era molto di più Lo straniero di Camus, libro del quale Demone custode imita l’incipit e solo in parte il corpus della trattazione. In effetti, questo Demone custode è un ANTI-Straniero, e in modo consapevole e dichiarato, in modo lucido e irriverente – diabolico?
Abbiamo appena messo sul tavolo giusto quel paio di microtematiche che, quando ci si inoltra, più che nella narrazione, che non c’è (e già questo è un puro e chiaro atto di ribellione), nella scrittura, fanno, di questo libro, un’avventura filosofica oltre che una impervia peripezia dell’anima.
Ricorre nel libro l’idea di abuso. Un senso di violazione: segno di come il singolo, senza la minima tutela e senza alcuna cautela, è strattonato dal mondo, è macinato dalla macchina dell’esistenza che sferraglia indomita e ostinata. E nel lucido delirio dichiarativo, in cui il tessuto della scrittura consiste, lambendo a volte persino la secchezza aforistica di Wilde, si affaccia la teoresi classificatoria del catalogo di errori del genoma: quasi a voler riconoscere l’innegabile radice biologica del tutto. E a voler dire che nulla di astratto governa il flusso confessionale che permea il libro ma tutto si radica nell’esistente, nel reale, nel concreto universale, come nell’attualità e nella cronaca culturale. Del resto nessuno può aver dimenticato Elizabeth (Supercoralli Einaudi, 2011), un vero romanzo in cui una storia vera viene letteralmente svelata fin nelle pieghe più abiette e secondarie per rivelarsi una storia di violazione e di abuso che esita in una sindrome di Stoccolma. E questo fa il paio anche con il lato psicanalitico che le vicende scelte da Sortino, ossessioni sue secondo la miglior tradizione letteraria, inevitabilmente sondano.
Tutto del resto ruota attorno al rapporto della voce narrante con la madre e in parte col padre.
La madre è morta: mors incerta semper, come Camus prescrive. Però mentre Lo straniero di Camus è un romanzo che si sostanzia di vicende, per quanto nude e spoglie, e assurde, e si sviluppa in una trama, qui troviamo piuttosto il fluire randomico e accidentato del pensiero della voce narrante che solo in parte si aggruma in nuclei di fatti ascrivibili al tempo, allo spazio, talvolta alla storia, e a letteratura e cultura, in un galoppo speculativo che sostanzia il libro assegnandolo decisamente al pamphlet con filamenti di mémoir. Una tessitura aspra, graffiante, che si autorassicura d’essere lo status di chi ormai ha placato ogni protesta ma è, alla prova dei fatti (cioè dell’immersione in queste pagine), la ribellione di un uomo in rivolta.
Camus dunque è profondamente innestato in questa scrittura che tuttavia incorpora in sé anche la legge del desiderio. O meglio la formulazione del desiderio come legge, se dobbiamo credere a quanto esposto dallo psicanalista Massimo Recalcati in un dialogo con Corrado Augias in una puntata di La torre di Babele. A un Augias come sempre compiaciuto di sé nello sparare sui giovani che non hanno più niente, nemmeno le speranze, ma nemmeno le illusioni, perché non hanno una vitalità a sorreggerli ma solo un disordine, un caos indistinto di desideri peraltro eteroindotti, Recalcati leva l’ultimo appiglio: ripristinare il passato modo di sentire è impossibile, bisogna consegnarsi al passaggio successivo, inevitabile, cioè che l’uomo nuovo sia almeno capace di “fare del desiderio una legge”. È esattamente ciò che la voce narrante di Paolo Sortino qui rivendica. Sortino parla di “entrare in un rapporto di responsabilità col proprio desiderio”.
Può suonare come un passo miltoniano. Sembra di sentire il Satana sensuale e indifferente ma lucido del Paradiso perduto, e questo darebbe senso al demone custode del titolo, alla angelicità nera di Lucifero che, arcangelo maggiore caduto coi suoi angeli, è il grande alfiere del dissenso, e lo spietato tormentatore del genere umano, rispetto al quale si stacca di parecchie spanne per brillantezza di pensiero, per clarità di ragionamento, per acrobaticità di sofisma, e, nel noto discorso, definitivamente consegnato al suo regno oscuro, non più Lucifero ma definitivamente Satana. Ebbene il demone custode di Paolo Sortino è anche il dàimon, la vocazione, la tendenza a-, che alimenta il desiderio di poter seguire ciò verso cui si è orientati senza che il mondo frustri necessariamente la felicità cui tendiamo né riesca a farlo.
Allora demone custode vuol dire anche: il talento, la vocazione che ci guida e dunque ci impedisce di accettare le briglie che il sistema vuole metterci per non farci brillare e tenerci allineati alla mediocrità comune. Il demone custode cioè è la nostra vocazione, il nostro talento, che ci sorvegliano e cercano di tenerci fedeli a ciò che siamo senza lasciarci deragliare dall’andazzo e dal caos organizzato del mondo.
Ora il discorso di Paolo Sortino non è, come accennavo, astratto e teoretico, non si esaurisce in una formulazione che se fosse ostinata ammarerebbe nella doxa e dunque diventando opinabile risulterebbe facilmente smontabile e sconfessabile. È viceversa un discorso concreto, calato nel nostro presente, che è epitome di ogni azzeramento della coscienza e dell’immaginazione, assassino, questo sì, di ogni invenzione o volo d’arte, in un pascolo mezzo-medio che fa cascare le braccia. Se si legge, come sempre si dovrebbe, il testo come un’opera concreta e anche universale, dunque denotativa ma anche metaforica, se si accede al senso connotativo immediatamente convivente con il senso già tangibile del discorso, allora si coglie una piccola rivelazione.
Lo spiego con un esempio: La grande bellezza di Paolo Sorrentino.
In realtà quel film parla del mondo letterario azzerato dalla borghesia dell’anima.
Molte volte Paolo Sorrentino ha dichiarato, apparentemente scherzando ma molto dicendo la verità, di essere vocato ad essere più scrittore che autore cinematografico. Il suo film più importante è un manifesto (cucinato col sarcasmo) della condizione in cui versa la letteratura. Non è un caso che in Demone custode Sortino tuoni contro il mondo letterario-editoriale che ha ucciso la poesia, ha ammazzato l’invenzione, ha azzerato la vocazione con la frusta della manualistica, della commerciabilità, dell’editing, della vendibilità. La poetica non conta più, e nel libro Sortino formula argutamente la propria indipendenza rispetto a un mondo che alimenta sé stesso e si autoelimina con uguale regolarità e tenacia per autorigenerarsi come un enorme fegato sanguinolento.
Sortino in definitiva formula il proprio profondo dissenso, la propria dissociazione rispetto a tutto ciò che prevale e domina, partendo da due crisi. La prima è detta subito: è la morte della madre, e anche quando il discorso fluisce lontano da questo fatto fondativo il dettaglio viene riacciuffato e rimesso al centro della inquadratura, e da lì il discorso riparte anche all’inseguimento di ciò che consegue, cioè l’aftermath. La morte della madre comporta un cambiamento di stato, è un voltare pagina che genera una dissociazione dall’esistente corrente decisa, oppositiva. E c’è una seconda crisi, personale, che spinge a fondo il processo della propria autoindividuazione e l’inevitabile isolazionismo se non la rivolta verso il mondo: il proprio volto allo specchio. Con o senza barba. Con la barba per rassicurazione estetica ma essenzialmente senza barba, dunque spoglio, così come risulta alla nuda coscienza di sé.
Non si tratta tanto del dilemma tra volto e maschera. Si tratta di scorgere un tratto che inchioda. Il pensiero corre cioè non tanto al fu Mattia Pascal poi Adriano Meis ma certamente a quel Vitangelo Moscarda che un giorno specchiandosi si accorge di avere il naso che pende impercettibilmente verso destra: sarà pure un difetto impercettibile ma ormai lui lo sa, se ne è accorto, e tutta la coscienza di sé si affolla attorno a quel dettaglio. Ebbene nel libro di Sortino il dettaglio, cioè la scoperta nel proprio aspetto di qualcosa che apparentemente cela la sincerità del volto e la sua riconoscibilità ma aumenta in realtà l’attendibilità della personalità e della persona, la sua affidabilità, la sua credibilità, e dà solidità a queste caratteristiche che il soggetto sente di poter attribuire a sé stesso, ecco, tutto questo rafforza l’unicità, consolida l’isolazionismo irrimediabile, dà più vigore alla protesta, alla rivolta, al dissenso, alla distinzione. Dunque motiva alla libertà negativa, essere anzi sentirsi libero di non-. Sempre con un sentimento del contrario, con un intento di capovolgere l’ovvio, di rivoltarsi al luogo comune come all’andazzo corrente. Con un orientamento che porta la voce narrante a dettarsi, come individuo, una propria estetica, una propria idea di bellezza.
Questo dettaglio ci permette di arrivare al vero punto del libro: la paura, il sentimento in assoluto più comune tra i viventi, i quali (come diceva persino Chaucer in quel poema comico narrativo che è The Canterbury Tales ) dormono con un occhio solo. Dunque una condizione condivisa, ontologica, o genomica, per tornare agli errori del genoma che nel libro la voce narrante cataloga. Ebbene, la posizione che la voce narrante di nuovo suggerisce è il superamento e la neutralizzazione. Come? Essere franchi è l’unico modo. Ricordate The importance of being Earnest sempre del caro Oscar Wilde, il quale però vi indulge in un Victorian Compromise che consiste nello scivolare troppo nel comico e così neutralizzare la vera denuncia? Bene, l’importanza d’esser franchi qui diventa faccenda seria, e oscura, orfica qualcuno ha scritto. Ed è il contrario del conservatorismo, letterale e politico: è semmai il massimo possibile del progressismo, consiste proprio nell’andare avanti, anzi nell’andare oltre, nel restare al di sopra, naturaliter undaunted (per natura impassibili, senza paura): la voce narrante lo dice e lo fa con stile, e la franchezza, il suo modo di affrontare ogni pericolo a viso aperto, si traduce nella nuova bellezza che in essa consiste. Un passaggio di braccia, una rotazione del busto: dall’abbraccio freddo di sua madre al tenere in braccio a ciglia asciutte sua figlia.
La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.