Diario di una spettatrice
Notte al Quai Branly
"Dahomey”, Un bellissimo film documentario della regista franco-senegalese Mati Diop, racconta il ritorno in Africa di un antico re finito al Quai Branly, il museo etnografico di Parigi
È notte al Quai Branly, il museo etnografico di Parigi dedicato alle cosiddette civiltà primitive, il più grande del mondo. I raggi diagonali proiettati dalla cima della Tour Eiffel tagliano il buio dei corridoi e dei suoi saloni immensi. Basta andarci una volta, magari perché te ne ha parlato un amico antropologo, per scoprire che è più sorprendente del Louvre. Perché di altri Louvre in giro per il mondo ce ne sono, soprattutto in Italia, ma come il Quai Branly non c’è niente.
È in questo tempio paradossale innalzato contemporaneamente alle culture che non conosciamo e al colonialismo che le ha depredate, che si trova la grande maggioranza di quel 95% di arte africana posseduto ancora oggi dai musei europei. Opere d’arte “imprigionate” dentro le teche anti sfondamento della cultura occidentale fondata sulla conservazione e la museificazione. Ma esiste anche un altro punto di vista, un pensiero per noi difficile da accettare e ancora più complicato da tradurre in azioni concrete, che ci racconta questa storia con parole che non abbiamo mai ascoltate.
A dircele è la regista e attrice francese di origini senegalesi Mati Diop con il film documentario Dahomey, vincitore a sorpresa dell’Orso d’oro all’ultima Berlinale.
Qual è l’artificio inventato da Diop? La regista ha colto l’occasione, offerta dalla restituzione alla Repubblica del Benin voluta da Emmanuel Macron di 26 manufatti conservati al Quai Branly, per far parlare quegli oggetti come fossero persone, in particolare le tre statue dei re riportate in patria dopo 130 anni di esilio in Francia.
È la storia del “Tesoro di Béhanzin” sottratto come bottino di guerra dall’esercito coloniale francese nel 1892 nel corso del saccheggio del Palazzo di Abomey, l’antica capitale di un regno dell’Africa occidentale che fu potente e florido tra il XVII e il XIX secolo: il regno di Dahomey. Dinastia di re che ne sapevano di buona amministrazione e di fisco, ma soprattutto capaci di gestire la principale fonte della loro ricchezza: il commercio degli schiavi destinati alle Americhe, di cui il Dahomey controllava il venti per cento.
Come viene raccontata questa storia nel film documentario premiato a Berlino? Nella notte che precede il suo rientro in patria, nel buio del museo, la statua del re Ghezo inizia a parlare nella sua lingua madre, il fon. La voce è cavernosa, proviene da un tempo che il re non ricorda, la statua è confusa, non capisce dove si trova, come se si risvegliasse dopo un sonno secolare, sa solamente che è il numero 26. Lo spettatore assume così lo sguardo della statua e vive i preparativi del suo ritorno: le mani degli uomini che la imbragano, la depongono in una cassa, il coperchio che la chiude è come il sigillo di un sarcofago, la cassa entra nell’aereo, i rumori del volo, l’apertura della cassa e la luce dell’Africa che improvvisamente squarcia il buio. Solo allora la statua del re ricorda.
«Non me ne sono mai andato.
Io sono sempre stato qui.
Il numero 26 non esiste.
Non c’è niente da riparare.
Io non dimentico.
In me risuona l’infinito.
Non mi fermerò mai più».
Dare la parola alle statue significa evocare la sacralità degli oggetti, ovvero l’animismo e il voodoo tuttora presenti nelle culture africane e integrati di fatto nella conversione al cristianesimo. Ma al di là di questa suggestione poetica, l’aspetto più interessante del documentario sta nel lungo e affollato dibattito tra centinaia di giovani filmato dalla regista che rivela i diversi significati della cultura materiale e immateriale e l’importanza dei “rimpatri” per definire una nuova consapevolezza e un nuovo futuro per l’Africa.
Del resto è una questione complessa ciò che noi chiamiamo “restituzione” e che in Africa si preferisce definire “rimpatrio” come si trattasse di persone: se il Parlamento francese, d’intesa col Musée du Quai Branly, ha deciso di restituire “in deroga” al principio di inalienabilità, ogni grande museo nel mondo segue una propria politica: per esempio il British Museum preferisce “prestare” senza una data di scadenza.
Gli oggetti che ritornano nella terra d’origine non verranno imprigionati nei musei come avviene in Occidente. Almeno questa è l’intenzione dei governi che li reclamano. Noi abbiamo una concezione diversa dell’arte, le nazioni si nutrono di oggetti identitari. Ma la statua del re Ghezo vuole solamente tornare in mezzo alla sua gente, nella luce abbagliante dell’Africa. E noi non possiamo certo impedirglielo, non siamo più i predatori di un tempo… ma è davvero così?