Diario di una spettatrice
Fuga in Oriente
Il nuovo film di Miguel Gomes, "Grand Tour", è un elogio della finzione cinematografica e racconta la storia di due amanti in fuga per potersi ritrovare
Rangoon, 1917. Un giovane uomo riceve un telegramma dalla sua fidanzata: gli annuncia che è partita da Londra per raggiungerlo e sposarlo. L’uomo, che è un funzionario nella Birmania coloniale britannica, fugge prendendo il primo treno e dopo poco il convoglio deraglia.
È l’inizio di Grand Tour, il film di Miguel Gomes miglior regia a Cannes 2024. Rangoon, Bangkok, Saigon, Manila, Osaka, Shanghai, sono le tappe del viaggio rocambolesco che il regista portoghese immagina per Edward in fuga dalla fidanzata Molly alla vigilia delle nozze. Una storia apparentemente semplice per una pellicola di estrema eleganza e di rara cura formale. In realtà Grand Tour è un film complesso e sconcertante, mi ha ricordato il romanzo di Joseph Roth Fuga senza fine trasferito dalla Mitteleuropa all’Estremo Oriente.
Sottolineo subito i due aspetti che fanno di Grand Tour un film affascinante, ma che potrà risultare per molti, non lo nascondo, anche faticoso e incomprensibile.
Il primo aspetto salta agli occhi dello spettatore fin dall’inizio: la scelta di Gomes di girare in un bianco e nero pastoso che immerge immediatamente lo sguardo in un tempo e in luoghi lontani. Ma ci sono anche scene a colori che sembrano seguire una logica paradossale rispetto alla consuetudine: perché il “reale” della narrazione è in b/n e il colore arriva nell’irrealtà dei sogni o delle favole del teatro delle marionette birmano e vietnamita che interrompe a tratti la storia.
La seconda scelta è ancora più significativa perché non riguarda solo questa pellicola, ma caratterizza tutto il cinema di Gomes: evidenziare la finzione, spingersi fino ad assemblare elementi contraddittori pur di rivelare allo spettatore che ciò che sta vedendo è nient’altro che cinema, non è la realtà. I personaggi indossano abiti di inizio ‘900, ascoltano il grammofono, viaggiano su treni e piroscafi a vapore. Ma le città dove si rincorrono hanno uno skyline di grattacieli, il traffico di auto e scooter ci proietta nella quotidianità dei nostri giorni e c’è pure il karaoke cantato a squarciagola nei microfoni e nelle situazioni più improbabili. E quando l’azione si sposta nella giungla subtropicale e nelle foreste di bambù, sembra di entrare all’improvviso nel set di un film muto tanto è evidente la finzione, col serpente che striscia, la testa abbattuta di un Buddha gigantesco e proprio accanto a quell’oggetto di scena si addormenta il protagonista. È tutto finto e si vede.
In effetti il film è stato girato in pellicola 16mm dentro teatri di posa italiani (esattamente come faceva Fellini nel prediletto teatro 5 di Cinecittà) e poi montato con le riprese fatte dal regista e dalla sua troupe in giro per il sud-est asiatico. La finzione del set verrà celebrata da Gomes nella scena finale che la mostra platealmente.
Ecco allora il suggerimento: per godersi il film di Gomes bisogna rinunciare alle spiegazioni razionali e abbandonarsi col cuore e con la mente al viaggio cinematografico e metaforico che i due protagonisti fanno all’interno dei loro sentimenti, prima ancora che nei paesi dell’Estremo Oriente che attraversano. Edward e Molly si amano e malinconicamente si sfuggono e si inseguono negli imprevisti di un viaggio tanto avventuroso che non può essere altro che la metafora della vita.
Il film è strutturato in due capitoli: prima c’è il punto di vista di Edward in fuga, poi il punto di vista di Molly che lo insegue. E le stesse scene sono rivissute dalle emozioni dell’uno e dell’altra. La sceneggiatura non è lineare, anzi pare improvvisata inseguendo gli amanti tappa per tappa e nelle situazioni così inverosimili da produrre un effetto straniante in chi guarda.
Cosa ci racconta dunque Grand Tour attraverso la storia dell’uomo che fugge e della donna che lo insegue? Che occorre avere il coraggio di perdersi per potersi ritrovare, esattamente come fanno Edward e Molly. E che oggi, nei tempi bui che stiamo vivendo, abbiamo ancora più bisogno di immaginare un orizzonte diverso dalla realtà, un mondo da inventare con ironia e sensibilità e grazia come fa un regista in un teatro di posa, dove ciò che conta è il viaggio all’interno di noi stessi più che il viaggio esterno, che è solo finzione, è solo un set cinematografico.
Inutile sottolineare che questo film esige la versione originale, perché gli attori dialogano in portoghese, francese, inglese. E perché c’è una voce narrante che svolge un ruolo cruciale nel racconto e che accompagna lo spettatore in questo viaggio parlando nelle lingue dei paesi attraversati, il birmano, il mandarino, il giapponese. Solo così possiamo perderci anche noi nella Babele che è sempre il grande cinema.