Giacomo Battiato
Da un passato molto presente

La storia di Azelaïs

«In pochi attimi, la strada dove Azelaïs e Joàn camminano si popola di gente che urla spaventata. Dei giovani uomini hanno già delle armi in pugno, le campane della cattedrale suonano, le pesantissime porte della città vengono sprangate...»

È il 13 febbraio 1278. Siamo nel centro dell’arena di Verona dove oltre 200 esseri umani vengono legati tra loro in piccoli gruppi di donne, uomini e bambini. Tra loro, una donna di 85 anni che è nata nel 1193 assai lontano da Verona: si chiama Azelaïs Pauc. Capelli candidi, occhi grigioverdi. È stata catturata insieme agli altri a Sirmione, l’ultima roccaforte di una corrente cristiana eretica. Oggi in Verona, in nome della vera religione, viene acceso uno dei grandi roghi nella storia d’Italia. Con la vecchia Azelaïs, in 200 urlano tra le fiamme e il fumo sale fino alle nuvole.

* * *

Lunghissima è la storia del cammino nella vita di questa donna fino alla sua morte per fuoco nell’arena di Verona.

* * *

Quando aveva poco più di 16 anni, nel 1209, era assai bella, con lunghi capelli e occhi che rinviavano una energia luminosa, intelligenza e curiosità per la vita.

Siamo, a quel tempo, lontanissimi da Verona, siamo nella città di Besièrs, in Occitania, su un altopiano, tra fiori e vigneti a perdita d’occhio verso il mare.

Eccola Azelaïs, accanto al padre, Joàn Pauc, un medico che tutti chiamano il Toledano dalla città dove, da giovane, è stato a studiare. Oggi è 21 di luglio. Besièrs è la più antica città dell’esagono che oggi chiamiamo Francia. Padre e figlia sono nella camera da letto di un anziano e ricco produttore di vini di nome Isern Massabrac. Nella stanza accanto, l’intera famiglia del patriarca è in attesa. Isern è molto amato. Il soffitto a volta della sua camera è dipinto di un intenso blu-pavone picchiettato da stelle dorate: un cielo notturno sotto il quale lui e sua moglie dormono. Alla parete è appeso un arazzo tessuto con infinite sfumature di colori: rappresenta il ciclo della viticultura nelle differenti stagioni. Ma Isern non vede più nulla della bellezza della sua casa e dei volti della sua famiglia e non vede i suoi vigneti. È cieco: aveva perso la vista da uno dei due occhi diventato duro e di un innaturale riflesso azzurrognolo. Glaucoma, aveva diagnosticato Joàn il medico, padre di Azelaïs. Incurabile. L’altro occhio invece, il sinistro, era stato reso cieco dalla cataratta. Joàn era pronto a operarlo. Isern Massabrac e la sua famiglia lo hanno pregato di farlo. Questo intervento sta avvenendo proprio ora. Il paziente è stato immobilizzato da due tavolette di legno strette con una cinghia agganciata alle assi del letto. La giovanissima Azelaïs, che assiste il padre, pratica l’eversione palpebrale per scoprire il bulbo dell’occhio da operare. Lo irrora con un liquido composto da una distillazione di oppio, giusquiamo nero e mandragora che serve a disinfettare e anestetizzare. Lo bagna infine con una composizione di polvere di arsenico giallo sciolta in acqua di coriandolo. Joàn inizia a operare secondo una precisa metodologia. Azelaïs legge per lui passo-passo la traduzione latina di un fondamentale testo di oculistica scritto in arabo da Abu Al-Qasim Ammar (il Liber de Cura Morborum Oculi). Joàn infila nel bulbo l’ago sufficientemente appuntito ma non troppo sottile di una siringa metallica inventata dallo stesso Abu Al-Qasim e che Joàn ha perfezionato. Lo inserisce attraverso le due tuniche esterne. Azelaïs gli legge ad alta voce: “…in medio loco inter oculi nigrum et angulum tempori propiorem et regione mediae suffusionis, sic ne qua vena laedatur”.

L’ago guidato da Joàn attraversa l’umore acqueo, perfora l’iride, si attacca al tessuto opacizzato e sclerotizzato del cristallino, lo abbassa e, lentamente, lo aspira nella siringa. E fuori l’ago! Per il vecchio Isern cade un sipario nero, vede la luce. Azelaïs lava e ancora disinfetta l’occhio operato. Joàn lo benda. Domattina passeranno a visitarlo. Che Isern cerchi di dormire e sopporti il dolore pensando che tra pochi giorni tornerà, con quell’occhio, a vedere le persone che ama, le sue vigne e il soffitto della sua camera da letto.

Prima di andare avanti nella storia della sua vita, devo accennare al background di Azelaïs. Comincio proprio da suo padre. Finiti gli studi a Toledo, Joàn Pauc torna con due grosse ceste piene di copie di libri caricate sulla schiena di un mulo. Toledo è una capitale multietnica della cultura davvero unica in Europa; è multilingue (si parlano correntemente, oltre al catalano, al castigliano e al latino, l’arabo e l’ebraico) ed è piena di biblioteche. Joàn ha studiato il latino (la lingua che lui parla in casa è la lingua d’oc), ma non conosce l’arabo che è la lingua della scienza e in particolare della medicina. Da due secoli la medicina araba è la più avanzata e completa del pianeta. C’è, a Toledo, un italiano, emigrato anche lui per studiare, che si chiama Gherardo e viene da Cremona. Ha studiato l’arabo a fondo, ha capito il valore di quei testi e si è messo a tradurre dall’arabo in latino con una lena instancabile. È un protagonista della famosa “Escuela de traductores de Toledo”.

Durante il viaggio di ritorno (più di mille chilometri a piedi accanto al suo asino) Joàn Pauc fa la fame: aveva finito di spendere in libri tutti i soldi che la famiglia gli aveva dato e quelli che aveva guadagnato lavorando nelle ore libere dallo studio. Tra le copie dei libri di medicina e chirurgia tradotti da Gherardo da Cremona che Joàn Pauc porta con sé, ci sono il Liber Regalis di Alì Al-Majusi, alcuni volumi del Liber Medicinalis di Muhammad Al-Razi, immenso medico, filosofo, matematico e musicista, il primo a impiegare l’alcol in medicina, inventore dell’acido solforico, il primo a utilizzare il mercurio, scopritore dell’asma allergica, studioso del vaiolo e del morbillo. C’è il Canon Medicinae di Alì Ibn-Sina (lo chiamiamo Avicenna) e il Medicina Generalis di Al-Walīd Ibn Rušd (Averroè) e la Rectificatio Medicationis dell’andaluso Al-Malik Ibn Zuhr che noi chiamiamo Avenzoar. E c’è il preziosissimo volume dedicato alla chirurgia di Khalaf Al-Zahrāwī, da noi chiamato Abulcasis.

Una volta rientrato a Besièrs, Joàn chiede a un suo amico fabbro di riprodurre gli strumenti disegnati in dettaglio da Abulcasis nel suo testo. Il fabbro ha una fonderia sulla riva dell’Orb; l’acqua del fiume aziona magli e mantici. Lui, solitamente, fabbrica lame per aratri, gioghi, falci, inferriate, coltelli, asce e spade. Curioso e sedotto dal carisma del giovane medico, prova a fondere in crogioli sigillati, come lui gli chiede, una mistura di ferro, carbone e vetro in maniera da arricchire il ferro con il carbonio e da far assorbire al vetro, man mano che si liquefa, tutte le impurità del ferro. Ne esce un acciaio di estrema purezza. Con questo acciaio, Joàn si fa modellare gli strumenti: bisturi, pinze, forbici, tenaglie e seghe di differenti forme e lunghezze, sonde, cateteri, stiletti, specoli, siringhe, punteruoli, stecche, otoscopi, aghi eccetera eccetera.

* * *

Grazie al suo viaggio di studio a Toledo, ai suoi strumenti e al suo talento, Joàn Pauc diventa presto il primo medico e chirurgo della città, si innamora della figlia di una famiglia di tintori, Melina de Lanta e lei anche s’innamora di lui. Si sposano. Joàn e Melina hanno una sola figlia, la nostra Azelaïs. Joàn il Toledano la adora e lei ricambia l’amore e l’attenzione paterni. A 12 anni Azelaïs già legge perfettamente il latino e da quel momento divora i testi del padre, uno dopo l’altro, con metodo. Ripete a tutti una massima di Ippocrate, chissà perché le piace tanto, forse ha già perfettamente capito il dramma dello scienziato di fronte alla malattia: “La vita è breve, l’arte medica è lunga e complessa, l’occasione è fugace, l’esperienza è fallace, il giudizio è difficile”.

Osserva il padre curare i malati e operare. Certo, per una giovane ragazza, l’attività della madre avrebbe dovuto avere un fascino infinitamente superiore. I de Lanta hanno una fàbrica alla periferia della città e trattano la “grande tinta”, quella che dispone dei pigmenti più pregiati. I tessuti colorati nella tintoria dei de Lanta sono venduti in tutta Europa e in Oriente. Quella dei tintori de Lanta è un’arte raffinata e pregiata e che ispira i pittori. Attorno a Besièrs, ci sono sterminati campi di guado con il quale si ottengono le ricchissime gradazioni di azzurro, di violetto e di verde, i colori dei cieli e delle acque. (Per inciso: Il padre di Piero della Francesca si arricchirà proprio commerciando il guado su larga scala; il figlio lo usava per ottenere il suo mirabile indaco-blu).

Certo, l’odore nella tintoria può essere a volte disgustoso ma la mescola dei colori nelle vasche di tintura, le composizioni delle tinte a imitazione dei colori della natura avrebbe potuto essere, per Azelaïs, la più affascinante delle aspirazioni. Ma no. Lei preferisce l’arte del padre. Preferisce l’anatomia, preferisce imparare da lui la sutura dei vasi sanguigni con i fili di seta. Joàn le insegna il giusto modo di incidere, sezionare, trapanare, cucire; glielo fa provare, quando apre i maiali e le spiega i meccanismi degli organi che tengono in vita gli esseri viventi, gli umani così come i porci. Azelaïs non ha alcuna ripugnanza.

Questa ragazza innamorata del padre e del suo mestiere cresce in un contesto straordinario. L’Occitania alla fine del XII° contiene un mondo in cui io avrei voluto vivere. Non solamente per la bellezza dei luoghi ma soprattutto per la civiltà e la cultura poetica ed estetica che si sono sviluppate. Siamo dunque in un luogo per molti versi incantevole, in uno dei momenti più luminosi, più creativi, più desiderosi d’innovazione e di autonomia delle coscienze che l’Europa ha conosciuto. In Occitania non esiste servitù della gleba, si espandono le attività di artigiani, imprenditori e mercanti, le donne hanno gli stessi diritti degli uomini inclusi quelli di ereditare. Mentre, tutt’intorno, l’Europa è sotto il peso feudale, qui fiorisce una società aperta, libera, sofisticata, cosmopolita, con organizzazioni quasi-repubblicane e democratiche. Nel 1189, Tolosa (terza città d’Europa per popolazione) fa la rivoluzione senza ghigliottina e diventa una Repubblica (600 anni esatti prima della presa della Bastiglia). Chiunque venga a vivere a Tolosa ne diventa un libero cittadino. È il tempo della nascita della poesia europea in lingua volgare che sboccia proprio nella lingua occitana, la lingua d’Oc, quella tra le tre che verrà cancellata dagli eventi di cui Azelaïs sarà testimone. Gli 8 versi di Dante in occitano nei quali fa parlare “il miglior fabbro del parlar materno” (Arnaut Daniel) omaggiano proprio la fondazione della cultura poetica europea nata qui, nell’XII° secolo, in lingua d’oc.

Ho detto che avrei voluto vivere qui, in questo tempo, ma… ma c’è un ma, un grande ma.

Un ruolo fondamentale nella fioritura di civiltà in cui è nata Azelaïs ha la “grande eresia”. È arrivata in Occitania con il vento del misticismo gnostico bulgaro dei bogomili, all’inizio del Mille. La sua nuova visione del mondo e del cristianesimo, dei rapporti umani, della donna, del Bene e del Male, conquista questa parte dell’Europa, si evolve lungo due secoli e contribuisce alla sua civilizzazione. La chiesa cristiana (Eckbert von Schœnau a metà del XII°) denomina Catari i seguaci di questa visione (da Katharoi “puri”, “puri eretici”).  Catari non deriva da Cattus, come qualcuno dice dato che nella loro fabbrica di fake news, gli Inquisitori li accusano di baciare il culo del gatto (il demonio). Questi “eretici” si chiamano tra loro, semplicemente, Credenti, Fedeli, e i loro predicatori, maschi e femmine, Uomini Buoni e Donne Buone. Rifiutano il paradosso che un Dio di amore causi tanto dolore agli uomini che lui stesso avrebbe creato. Per loro, Cristo indica la strada. Non servono le chiese, ci si può rivolgere a dio dovunque, no culti esteriori, no liturgie, no sacramenti, no gerarchie ecclesiastiche, rispetto delle altre fedi, libertà e uguaglianza di genere. La sua parola emblematica in occitano, credo veicolata dalla poesia, Paratge, è intraducibile: esprime il senso della generosità, della rettitudine, della nobiltà` di cuore.

La famiglia Pauc e quella dei de Lanta sono imbevute di questo spirito religioso così come fanno parte della cultura occitana. Hanno scelto per la loro figlia il nome Azelaïs perché è quello di una amata poetessa, una trobairitz nata a Porcairagues a soli 12 chilometri da Besièrs sulla strada verso il mare. Credo sia la prima poetessa donna di cui si conosca il nome.

Ma torniamo alla nostra Azelaïs quando esce con suo padre dall’abitazione di Isern dopo l’intervento all’occhio. Stanno tornando a casa allegramente. Melina, la madre, è andata Carcassonne (80 chilometri distante) a trovare la sorella minore che ha appena partorito. Azelaïs scherza con il padre, lo chiama “magnus chirurgus ocularius!” Lui le risponde, e non scherza, che sarà lei a diventare una “magna chirurga ocularia”. Le propone di andare all’ostou del loro amico Pèire dove mangeranno una zuppa di pere e cipolle ma, soprattutto, il suo famoso pasticcio di carne in crosta di pane. Melina è vegetariana, come molti Credenti, ma padre e figlia non troppo e stasera si abbufferanno; tanto, Melina non li vede!

All’improvviso, odono un lontano rombo di tuoni. Alzano gli occhi al cielo: è arancione, senza nuvole. Raggiungono l’incrocio di due vie che permette di vedere, come attraverso un cannocchiale, lo scorcio della vallata in basso, verso nord-est, da cui giunge quell’eco cupa, fragorosa e continua. Sembra una tromba d’aria ma non è una tromba d’aria: è una nuvola immensa di polvere sollevata da una colonna lunga 10 chilometri di migliaia di uomini a piedi e a cavallo, di carri, di bestiame, di macchine da guerra smantellate, di catapulte, di torri d’assedio, di grandi balestre. Un numero spaventoso, un totale di 50.000 secondo l’inviato sul campo, il cronachista Pierre Vaux-de-Cernay, monaco cistercense. In quella massa lontana e ancora confusa possiamo intravedere le armature, le cotte e le maglie lucenti dei baroni e dei cavalieri, i cuoi attorno ai torsi dei soldati, i mantelli variopinti di centinaia di alti prelati. Infinito è il numero delle bandiere che sbattono nel vento: il leone rampante su fondo rosso dei Montfort, quelle a bande oblique gialle e blu dei Borgognoni, quelle a bande verticali rosse e gialle dei conti di Provenza, il leone rampante giallo con lingua e unghie rosse di Nevers, quella blu con un mazzo di spighe d’oro dei Saint-Pol. E ci sono bandiere germaniche e bandiere italiane. Non ci sono ancora quelle di panno blu stellato di Filippo il Guercio, re di Francia detto il Conquistatore. È occupato a prendere agli inglesi la Normandia, l’Angiò e la Turenna. Arriverà.

Dietro la nuvola di polvere, di metallo e di stoffe di ogni colore c’è una moltitudine di carpentieri, di fabbri, di chierici, di guide del vettovagliamento con mandrie e greggi al seguito, di contabili e di cuochi. C’è anche una paurosa folla eterogenea, qualche migliaio, sono ribaldi, ladri affamati e stupratori, hanno armi improvvisate, clave ferrate, coltellacci, picconi, asce. Per scudi, dei coperchi di botte borchiati di ferro. A loro s’ispirano, oggi, i vari Mad Max o le armate Urukai del Signore degli Anelli.

In pochi attimi, la strada dove Azelaïs e Joàn camminano si popola di gente che urla spaventata. Dei giovani uomini hanno già delle armi in pugno, le campane della cattedrale suonano, le pesantissime porte della città vengono sprangate. Irrompono nella via dei prelati a cavallo: sono il vescovo di Besièrs Renaud de Montpeyroux con i suoi ausiliari. Si fanno riaprire la grande porta che si spalanca sull’unico vero accesso alla città, il ponte che attraversa l’Orb. Il vescovo galoppa incontro all’armata.

Joàn afferra la figlia: corrono a casa.

A questo punto devo “dissotterrare” e dare un volto al mastermind che ha voluto questo immenso esercito che si sta avvicinando alla città. È un intellettuale e giurista nato nel Lazio, si chiama Lotario dei Conti di Segni, ha studiato a Parigi e a Bologna ed è stato eletto Papa (Innocenzo III°) 11 anni fa, quando era trentasettenne. Da giovane, aveva scritto un libro rimarchevole “Sulla miseria della condizione umana” dove parla della fragilità del corpo, dell’inutilità delle ambizioni, della ricerca della ricchezza, del piacere, del successo diremmo oggi. “Finiremo tutti cadaveri che si sgretolano in attesa del giudizio universale…” concludeva il giovane conte di Segni. Ma quando lo eleggono papa afferma: “Essere Papa è la più gloriosa posizione sulla terra, a metà tra Dio e l’uomo, al di sotto di Dio, ma al di sopra dell’uomo. Non posso concedere libertà alcuna al pensiero umano. Ho ricevuto il potere di capovolgere, di disperdere, di distruggere, di edificare e di seminare”.

L’eresia dei cosiddetti Credenti sta conquistando intere popolazioni in Occitania, inclusi molti uomini del clero. Lo spirito che si respira in Occitania è innovatore, sconvolgente e i Credenti conquistano sempre più adesioni. Il cronachista e teologo inglese Radulfus Niger (Ralph the Black) che faceva parte dell’entourage di Thomas Becket ha già messo in guardia l’Europa cristiana: prima di andare in Oriente per liberare Gerusalemme gli occidentali dovrebbero ripulire “casa loro”.

Innocenzo vede la spaventevole minaccia di questa eresia. Lui vuole essere il più grande Papa della Storia, non l’ultimo della storia dei papi. Per schiacciare il pericolo, lancia un’operazione militare internazionale. Ne aveva lanciata un’altra, pochi anni prima, per conquistare Gerusalemme che era finita a Costantinopoli in una catastrofica serie di crimini contro l’umanità. Il termine “crociata” viene, se non erro, dagli storici posteriori; al tempo, non si dice “crociata” e non si dice “guerra”. Il termine ufficiale è “iter militaris”.

Dunque Innocenzo lancia “una spedizione militare speciale” di cristiani contro cristiani. A questo iter militaris viene dato un nome in codice: negotium pacis et fidei. Innocenzo, dopo avere affermato che “La pace è il supremo comandamento di Cristo” dice al suo esercito: “Non si impietosisca il vostro occhio e non abbiate pietà: ferite per risanare e uccidete per dare vita!”. Simone Weil sostiene che proprio con questa operazione militare speciale in Occitania viene istituzionalizzato il “genocidio”, il principio che sta alla base di tutti i genocidi fino ad arrivare alla shoah e proseguire oggi: uccidi e sarai premiato perché non stai sterminando degli esseri umani ma “il Male” che è in loro. Loro “sono” il male.

Torniamo alla nostra Azelaïs. I cittadini di Besièrs vengono convocati dai consoli della città: devono “votare”. Joàn e Azelaïs sono presenti. Cosa si vota? È successo questo: il vescovo di Besièrs che i nostri hanno visto passare al galoppo, ha consegnato un documento al legato del papa, l’abate Arnaud Amalric, superiore generale dell’ordine cistercense e supremo comandante dell’armata. Contiene una lista di 222 nomi, i nomi degli eretici di Besièrs. Sono assai di più (e tantissimi i simpatizzanti) ma su quel foglio ci sono soltanto i 222 nomi accertati dal vescovo. “Fatteli consegnare, fanne quello che vuoi e lascia in pace la città”, gli dice il vescovo delatore. “La tua città è completamente infettata” gli risponde Almaric (come riferisce l’inviato sul campo), accetta però l’idea (o finge di accettarla) e manda un ultimatum: “consegnare gli eretici o morire con loro”. È quasi notte quando i consoli riuniscono i cittadini e riferiscono. Non c’è bisogno di votare, la risposta quasi unanime è, testualmente: “Piuttosto ci lasceremmo affogare in mare!” Non è concepibile, per loro, tradire, consegnare delle persone che tutta la città conosce e stima.  Si tratta di un esempio strepitoso di solidarietà, di rispetto e di umanità. Inoltre, la città afferma che non ha nesuna intenzione di sottomettersi ad alcun potere straniero. Punto. Alta sulla sua roccia, Besièrs dalle potenti mura non ha paura di resistere.

I Soldati della Croce sono sconcertati: prendere la città è tutt’altro che facile. Il fiume li obbliga a una distanza che non consente l’uso di catapulte e di altre macchine d’assalto. Tentare di sfondare il doppio, gigantesco portone oltre il ponte, metterebbe gli assalitori in una stretta colonna alla mercé di una pioggia letale di frecce e fuoco.

Joàn e Azelaïs passano la notte parlando, congetturando, chiudendo gli occhi solo per brevi momenti. Melina, la moglie e la madre, a Carcassonne, avrà già saputo e sarà angosciata per loro.

Non è ancora sorto il sole quando un ragazzino di sette anni bussa agitatissimo alla loro casa. È il figlio di uno stimato orafo, tale Guilhem de Cestayrol. È stato mandato a chiamare d’urgenza il dottore: la madre sta malissimo. Joàn e Azelaïs accorrono portando la borsa con i ferri di emergenza. Arrivano alla casa che sta all’estremità ovest della città, accanto ai bastioni. La giovane donna (Flandina, madre del ragazzino e di altri due più piccoli) rantola sul suo letto, convulsa; è cianotica, gli occhi sbarrati e stravolti, sta morendo soffocata. Joàn guarda nella sua gola, le abbassa la lingua gonfia, grida a Guilhem di lasciarli soli, di portare via i bambini. “Òidema della laringe” sussurra tra sé Azelaïs; “il bisturi, quello piccolissimo!” le grida, annuendo, Joàn. Lei glielo passa, è questione di attimi: Joàn incide la pelle ed entra nella trachea della donna; senza bisogno che il padre glielo chieda, Azelaïs prende dalla borsa un tubicino metallico, glielo porge, lui lo infila nel foro: un sibilo, l’aria comincia a passare, i muscoli di Flandina si distendono, la pelle riprende colore. Azelaïs dice al padre che lei sa dove lui ha studiato questa pratica, da Abulcasis, che l’aveva eseguita per la prima volta su un suo servitore che stava soffocando. “Cosa ha provocato l’òidema?”, le chiede lui. Lei risponde, sicura: “qualcosa che ha mangiato o forse la paura per quello che sta succedendo”.  Joàn approva, sempre orgoglioso di lei, e le dice di introdurre nella gola di Flandina, attraverso il tubicino, alcune gocce di estratto di citrus portoghese.

In quel momento, la porta della camera si socchiude, compare il marito di lei. Flandina non può ancora parlare, lo guarda, gli sorride con gli occhi e gli tende la mano. “Tutto passato” dice Joàn. Il volto dell’orafo Guilhem s’illumina ma all’improvviso si odono, fuori dalla casa, delle urla spaventose, poi il rumore della porta d’ingresso abbattuta, poi le grida dei bambini, mentre Guilhem che ancora sull’uscio della stanza aveva voltato la testa s’inarca e la punta di un ferro ficcato nella sua schiena gli esce dal ventre. Un uomo appare, sfilando la propria spada dal corpo dell’orafo che crolla sul pavimento. Ha 39 anni, è possente, barba e chioma bruna tendente al rossiccio. Si chiama Simon, è originario della Fransa, è signore di Montfort e Rochefort. Alle sue spalle, s’intravedono dei bruti con le mazze: hanno già scempiato i bambini di Flandina e Guilhelm e frugano in cerca degli ori. Joàn, con la decisione fulminea del medico di fronte allo scoppio di un’arteria, afferra la figlia per il vestito, la solleva in aria e la getta fuori dalla finestra che era aperta. Azelaïs precipita in un campo di lavandula in fiore sul dirupo, rimbalza e rotola come una bambola di pezza; si fa male ma le sue ossa non si rompono. Si rialza sulle ginocchia insanguinate con la bocca piena di terra e, nello sforzo doloroso per respirare, guarda verso l’alto: dalla stessa finestra da cui Joàn l’ha scagliata, Azelaïs vede volare la testa di suo padre mozzata d’un colpo da Montfort. Rotola a pochi metri da lei.

Era accaduto che in quell’alba, mentre loro stavano salvando la vita di Flandina, dei giovani di Besièrs, spavaldi e ubriachi, avevano aperto la porta sul ponte, erano usciti e si divertivano a sventolare le loro spade. Volevano provocare un gruppo isolato di assalitori che si erano avventurati sul ponte. Gli insensati non avevano previsto che quelli si sarebbero lanciati su di loro con tale velocità ed energia da raggiungerli prima che loro riuscissero a richiudere alle loro spalle il doppio pesantissimo portone. Erano stati massacrati e l’avanguardia dell’esercito dei Cavalieri di Cristo, con in testa Simon, era entrata. A chi chiede ad Amalric come avrebbero riconosciuto gli eretici dai buoni cristiani, lui biblicamente risponde: “Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi”. L’esercito invade Besièrs.

Azelaïs striscia verso la testa del padre che ha ancora gli occhi aperti, la afferra, si rialza chiudendola nel proprio grembiule; se la stringe al petto. Si mette a correre zoppicante, lungo la pendenza del dirupo, tra campi selvatici di lavanda e spighe di orzo. Grida, ma dalla sua bocca non esce suono. Corre senza sapere dove, senza pensare dove, ma corre e si dirige verso il lato sud-ovest della città, lungo le mura. L’istinto incosciente la porta dai de Lanta, alle tintorie, dagli zii materni e dai cugini. Le urla che arrivano dalla città, sempre più assordanti, non riescono ad entrare nei suoi timpani, più forte è l’urlo interno, l’urlo della sua propria voce mentre corre, cade, si rialza, cade ancora, e ancora si rialza e corre, stringendo sul petto la testa del padre che s’è vuotata del sangue nel grembiule di lei.

Arriva alle tintorie, la grande porta per il passaggio dei carri è spalancata. Azelaïs entra e inciampa nei cadaveri dei cugini che tengono in mano chi un inutile coltello, chi una spranga. Vede sua cugina Esclarmonda, denudata, violentata e uccisa con una punta di ferro nel petto, vede lo zio Raimon impalato contro uno dei grandi pilastri di legno che reggono il tetto. Azelaïs si guarda attorno, nell’incubo, quando sente delle voci di uomini che s’avvicinano, non parlano la sua lingua, parlano la lingua della Fransa. Azelaïs si getta in una vasca di tintura di guado e sprofonda nel buio blu. Le voci le arrivano attutite, sono altri soldati in cerca di cose da rubare. La tintura le entra nel naso e negli occhi, li sente bruciare, si aggrappa al fondo melmoso per non risalire e affiorare, ma sta soffocando, la testa del padre le sfugge dalle mani e sale verso la superficie. Con l’ultimo sforzo di un corpo che ormai non controlla più, Azelaïs riesce a riafferrarlo per un orecchio; i suoi polmoni si contraggono, sta per spalancare la bocca e morire quando si rende conto che le voci se ne sono andate. Si lascia tornare a galla, rantola come un cane morente inspirando l’aria, scavalca il bordo della vasca e cade a terra senza sensi, la mano ancora aggrappata all’orecchio del padre.

Rimane là, morta ma non morta, in quello stato di insensibilità e torpore che i testi che lei ha studiato ma anche quelli di oggi chiamano “stupor”.

Sono passate più di 24 ore quando una tosse convulsa la riporta in vita. L’aria è irrespirabile, un fumo denso, un odore repellente ha svegliato Azelaïs. Si alza, barcolla, ricade in terra, con uno sforzo estremo si solleva di nuovo, afferra per i capelli la testa del padre ed esce. Il fumo viene dalla città in fiamme. Bezièrs brucia. Case e chiese. Nel fumo, urla disperate. Le strade sono piene di corpi, di cadaveri, di moribondi, di rovine e di cenere. L’esercito se n’è andato. Amalric ha già scritto al papa: “I nostri uomini non hanno risparmiato nessuno, indipendentemente dal rango, dal sesso o dall’età. Hanno passato a fil di spada almeno 20.000 persone. Dopo questo grande massacro, l’intera città è stata spogliata e bruciata. Giusto risultato della vendetta divina”. L’inviato sul campo che ho già citato, Pierre Vaux-de-Cernay, scrive che soltanto nella chiesa di Santa Maddalena 7.000 persone sono state trucidate, inclusi i preti.

Azelaïs cammina tra morti e feriti verso la sua casa. Vede, ancora avvolta dalle fiamme, l’abitazione di Isern Massabrac al quale solo due giorni prima suo padre Joàn aveva ridato la vista. Gli era servita soltanto per veder massacrare la propria famiglia. Azelaïs scavalca i corpi. Non sembra udire le grida, non sembra vedere nulla. Improvvisamente, dal fumo, compaiono di fronte a lei, ubriachi e urlanti, cinque scannatori che ancora non hanno lasciato la città. Tengono dei sacchi, sulle spalle, pieni delle loro ruberie; nella mano sinistra, le mazze puntute rosse di sangue con brandelli di carne rimasti appiccicati. Si bloccano. Azelaïs no, seguita a camminare verso di loro, solleva il braccio che tiene per i capelli la testa mozzata del padre e avanza, mostrandola. Nella loro ubriachezza di alcol e sangue, l’immagine della ragazza blu con in mano una testa blu che viene loro incontro fissandoli come uno spettro li fa arretrare, è un cattivo presagio, barcollano; lei passa, e scompare nel fumo.

Arriva alla sua casa che non è stata bruciata, soltanto saccheggiata. Va nello studio del padre. Appoggia la testa di Joàn in uno scaffale, facendo spazio tra i libri che le spinge contro, per reggerla. Nessuno ha rubato i libri, in guerra non si rubano i libri. Azelaïs fissa a lungo il volto e i libri. Poi, con una decisione improvvisa afferra il grande panno che copriva il tavolo di lavoro del padre, rovesciato per terra: vi butta dentro gli strumenti alla rinfusa, i flaconi dei medicinali, tutti. È frenetica ma precisa. Lega i quattro angoli del panno, se lo carica sulle spalle e corre fuori.

Per ore e ore, fino a notte fonda, Azelaïs tampona ferite, amputa arti squarciati, infila tubicini nelle trachee, cuce tagli di ogni tipo in ogni parte dei corpi ancora in vita sulle vie, sulle porte delle case, dentro le case che non bruciano. Prova a praticare il “bacio della vita” a chi sembra ancora sospeso sul ciglio della morte. Salvare vite, come le ha insegnato suo padre, alleviare il dolore, quando può, con la spongia somniferA, come la ha insegnato suo padre. Cade sfinita, dorme una, due ore poi rispunta il sole e Azelaïs ricomincia. Andrà avanti per giorni, fino a quando ci saranno feriti da curare, muovendosi tra le rovine che ancora bollono per il fuoco.

Siamo soltanto all’inizio della lunghissima vita di Azelaïs Pauc, delle incredibili battaglie che dovrà affrontare contro eserciti venuti a cancellare un sogno, contro uomini venuti a bruciare chi sogna. Fino al suo epilogo veronese.

Azelaïs è il simbolo delle tante donne che si sono battute allora e che ancora oggi si battono per difendere la loro libertà e il loro ideale di civiltà.


Quello che abbiamo qui pubblicato, per gentile concessione dell’autore, è l’inizio di una lunga narrazione storica. Le immagini che illustrano il racconto sono particolari di San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, 1440, conservato al Museée Jacquemart André di Parigi.

Facebooktwitterlinkedin