Al Teatro alla Scala di Milano
La pace di Verdi
“La forza del destino” di Verdi che ha aperto la stagione scaligera è un capolavoro che mantiene intatta la sua attualità grazie al lavoro di Riccardo Chailly e Leo Muscato
Siamo tutti rimasti irretiti da questa nuova produzione de La forza del destino che lo scorso 7 dicembre ha inaugurato la stagione scaligera. A cominciare dalla calibratissima direzione musicale di Riccardo Chailly che fin dall’inizio ci ha inondato delle celebri ouverture verdiane che tutti abbiamo nella memoria. Lui non ha certo bisogno di presentazioni: direttore musicale del Teatro alla Scala dal gennaio 2017. E dal 2021 è stato riconfermato alla guida dell’Orchestra del prestigioso Festival di Lucerna.
La forza del destino di Giuseppe Verdi fu presentata con grande successo al Teatro alla Scala il 27 febbraio 1869. E, come ho sentito uscendo l’altra sera dal foyer qualche voce di dissenso, in realtà, come ci raccontano anche le cronache dell’epoca, si sono pacatamente sollevate anche questa volta, proprio per la commistione fra tragico e comico che non tutti i melomani ancora oggi apprezzano completamente. Ma che invece Verdi ama darci in pasto, come ben ci racconta il musicologo Claudio Toscani nel suo saggio introduttivo del libretto scaligero.
Questo nostro mitico compositore, amato in tutto il mondo, da sempre ci racconta la realtà umana a tutto campo, superando gli schematismi del melodramma romantico.
Sottolineando l’idea portante del dramma, cui tutta l’Opera ruota intorno: che il destino, inesorabile, condizioni l’agire dei personaggi e ne determini la sorte. La vicenda de La forza del destino è tratta dal Don Alvaro ó la fuerza del sino di Angel de Saavedra, duca di Rivas. Noto come primo dramma romantico spagnolo rappresentato per la prima volta al Teatro del Principe di Madrid nel 1835.
Lei Donna Eleonora (Elena Stikhina) ama lui, Don Alvaro (Luciano Ganci), un peruviano discendente da una stirpe reale perseguitata dagli spagnoli, non amato dal padre, il vecchio Marchese d Calatrava (Fabrizio Beggi), e lui incidentalmente, nel primo atto, lo uccide. Lei fugge si traveste da uomo e poi si fa suora, lui scappa e si arruola, per poi farsi monaco anche lui, il fratello di lei, Don Carlo di Vargas (Ludovic Tézier), li insegue per anni per ucciderli entrambi e poi alla fine viene gravemente ferito a duello da Don Alvaro e al termine, prima di morire, Don Carlo di Vargas uccide la sorella Eleonora.
Questa vicenda piacque subito a Verdi, in primo luogo perché assomigliava ai drammi di Shakespeare, Schiller e Hugo che lui aveva già musicato nel Macbeth, nella Luisa Miller e nell’Ernani e in Rigoletto.
Quello che affascina in questa Forza del destino, che si dipana lungo il corso di molti anni e in luoghi molto lontani fra loro, fra Spagna e Italia, e questa mistura di generi con momenti di immane tragedia seguiti da scene comiche. Con l’utilizzo sia della prosa, sia dei versi, con eloqui molto colti con l’utilizzo anche del latino, e allo stesso tempo espressioni del linguaggio basso. Cose che i critici dell’epoca contestavano come se l’opera in questione fosse una sorella minore di Rigoletto, una cugina di Macbeth e un’anticipazione di Otello e Falstaff. Ma in questa Forza del destino c’è di più, nello specifico una struttura drammatica aperta: Macbeth e Rigoletto mischiano i generi, ma non hanno la sua trama complessa e variegata.
C’è un romanzo che senza dubbio influenzò l’opera di Verdi: I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Fu uno dei libri favoriti di Verdi, nonostante la grande distanza che separava il suo pessimismo agnostico dal cattolicesimo fervente di Manzoni. In quest’opera i personaggi spariscono per interi atti per poi ritrovarsi migliaia di chilometri lontano, come nei Promessi Sposi stessi. O nella Certosa di Parma di Stendhal, o in Guerra e pace di Tolstoj, insomma nella paradigmatica struttura narrativa del grande romanzo europeo dell’Ottocento, come ben ci evidenza Emanuele Senici, altro eminente musicologo docente alla Sapienza di Roma, che ci racconta questa complessa, quanto affascinante opera verdiana.
Fino a ipotizzare, giustamente, come questa Forza del destino abbia influenzato l’opera più romanzesca dell’Ottocento europeo, cioè il Boris Godunov di Mussorgskij.
La bellezza di quest’opera verdiana, oltre a proporci il rituale intreccio di contrasti e affetti fra i protagonisti, concede al tempo stesso uno spazio del tutto inusuale alle masse corali, dirette egregiamente da Alberto Marazzi, ma soprattutto ci sottrae dall’obbligo verso le cosiddette unità pseudo-aristoteliche di tempo, luogo e azione. Utilizzando magistralmente una sequenza melodica musicalmente più significativa di un motto, ma meno connotata semanticamente. Realizzando il capolavoro di questa celebre spirale implacabile all’inizio della Sinfonia, dopo sei rintocchi sacrali, cui farà riferimento la prolessi di alcune fra le melodie più importanti dell’opera.
I cori sono di una bellezza e di una originalità incontestabili. Quello dei Monaci che chiude l’atto secondo, il Rataplan del terzo, escogitato da Preziosilla (Vasilisa Berzhanskaya), straordinario pezzo di carattere per coro, quasi tutto a cappella, producono entrambi un effetto irresistibile. Questo lo scriveva il noto musicologo inglese Julien Budden parlando de La forza del destino. E sono esattamente le stesse sensazioni che abbiamo provato anche noi spettatori vedendo questa riuscitissima produzione con la regia di Leo Muscato.
Lui ci racconta che, grazie alla straordinaria capacità di sintesi, Verdi imprime alla narrazione un ritmo serrato, rendendo il pubblico testimone attivo delle trame del destino, la forza invisibile che è vera protagonista della storia.
Nel I atto è ancora una minaccia lontana, evocata dalle parole di Leonora “Con te sfidar impavida/cdi rio destin la guerra“. Nel II atto, prende il sopravvento l’eccitazione ingenua di chi si arruola volontariamente: giovani pieni di speranza che credono ancora che le guerre possano restaurare dei diritti. Tuttavia manca loro la consapevolezza che, come sottolineava Hannah Arendt, i conflitti servono in realtà solo a ridefinire dei poteri.
Nel III atto il velo dell’illusione è ormai caduto. Siamo immersi nel pieno di una guerra che si trascina da anni. Infine nel IV atto restano solo le macerie: povertà, fame, rabbia e frustrazione diventano il tragico epilogo della guerra. E il regista sceglie di raccontare questa storia attraverso epoche diverse, esplorandola da prospettive spaziali e temporali sempre nuove. Il racconto prende avvio nel Settecento e si spinge fino ai giorni nostri, senza vincolarvi rigidamente a una precisa aderenza storica.
Fin dal principio l’immaginario di Leo Muscato si è concentrato sull’idea di un movimento rotatorio, una ruota del destino che gira nella direzione opposta a quella in cui si muovono i personaggi avanzando con ostinazione attraverso scenari che cambiano continuamente. Con il trascorrere del tempo, questi paesaggi, assieme ai costumi, si fanno via via più cupi, più devastanti e sempre più realistici.
Gli unici a far eccezione sono i frati, figure universali e senza tempo, che rimangono immutati nel loro ruolo e nella loro presenza, e attraversano i secoli come custodi di una spiritualità che trascende le epoche.
Nella narrazione emergono due frati, dai caratteri radicalmente diversi ma perfettamente complementari. Padre Guardiano (Simon Lim), figura di guida spirituale capace di trasmettere conforto, pace e serenità a chiunque si avvicini; e Melitone (Marco Filippo Romano), il suo opposto, un frate dal temperamento vivace, schietto e diretto, che non si trattiene dal dire ciò che pensa.
Leonora alla fine dell’ultimo atto, riemerge dal suo rifugio distrutto e lancia un grido soffocato, una supplica disperata rivolta a Dio e al mondo intero: “Pace, pace, mio Dio!”.
Un’implorazione che oggi, più che mai, ci ricorda giustamente Leo Muscato, risuona come un’eco universale capace di attraversare il tempo e toccare profondamente chiunque l’ascolti. E tutti noi la condividiamo. Commossi dalla bellezza di questa fantastica opera verdiana che ha inaugurato con grande successo il tempio della lirica milanese.
Le fotografie dello spettacolo sono di Brescia e Armisano © Teatro alla Scala.