Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Indigestione Özpetek

Il nuovo film di Ferzan Özpetek, “Diamanti”, riassume tutti i temi del popolare regista, dall'amicizia debordante alla nostalgia. Ma il problema è proprio che ci sono troppi ingredienti...

Un giardino a Roma, estate 2024. Intorno a un grande tavolo siedono diciotto attrici italiane e un paio di attori tra cui Stefano Accorsi: sono tutti volti noti che hanno già lavorato con Ferzan Özpetek. Il regista fa circolare il copione del suo nuovo film. Tutti commentano, ammiccano, concordano: lo faranno. È il prologo alla prima scena della pellicola, ambientata sempre a Roma ma cinquant’anni prima, nella grande sartoria Canova che firma i costumi per il teatro e il cinema più belli del mondo, costumi da Oscar.

Diamanti, il nuovo film di Özpetek, parte da una bella idea, ma secondo me promette più di quanto mantenga. Certamente è il migliore fra i suoi ultimi titoli e il merito va al cast affollato che ha chiamato a interpretarlo, ma neppure la bravura delle tante attrici, a cominciare da Vanessa Scalera, è sufficiente a ritrovare lo smalto delle sue prime pellicole.

Ci sono tutti i topos che hanno reso inconfondibile la cinematografia di Özpetek: una famiglia “queer” fondata sulle affinità elettive, le tavolate in cui rimbalzano la complicità, le chiacchiere e le risate delle donne amate, le “sue” attrici protagoniste assolute della pellicola, con gli uomini relegati al ruolo di servizievoli tuttofare (o registi isterici o mariti violenti), le canzoni cantate a squarciagola di Mina e Patty Pravo, insomma c’è quella sottile nostalgia del tempo perduto delle amicizie che legano le vite meglio e più degli amori (ma stavolta manca il sesso tra uomini e questa è una novità).

Cos’è Diamanti? È un piatto che conosciamo bene in cui il regista mette troppi ingredienti con l’intenzione evidente di sottolineare ciò che lo spettatore sa già, perché Özpetek quel piatto ce lo presenta più o meno da trent’anni, dai tempi di Bagno turco e soprattutto Le fate ignoranti (ma allora era una novità e non un déjà vu): è la storia della sua vita, del bambino cresciuto in mezzo alle donne (il “vaginodromo”, come ironicamente lo definisce l’ineguagliabile Geppi Cucciari), come un Fellini turco che solo dalle donne può trarre ispirazione. Ma un film è qualcosa di più complesso di un costume di scena e non basta accumulare perline e sovrapporre ruches di taffetà per ottenere il risultato voluto, soprattutto se i personaggi formano in definitiva un catalogo di stereotipi.

C’è la sorellanza di Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella Canova (Jasmine Trinca), le titolari della sartoria, che resiste tenace nonostante la durezza autoritaria di chi è stata abbandonata dal grande amore in una stazione di Parigi e la fragilità di chi non sa elaborare il lutto della morte della figlia bambina. C’è il dolore di Nicoletta (Milena Mancini) massacrata ogni sera dal marito che opportunamente sparirà perché “è andato a comprare le sigarette e non è più tornato”. C’è l’imbarazzo di Paolina (Anna Ferzetti) che non arriva a fine mese perché abbandonata dal marito turco e fedifrago e nasconde il figlio piccolo nella stanza dei bottoni della sartoria. C’è l’ansia della caposarta Nina (Paola Minaccioni) con un figlio adolescente barricato in camera. C’è la vedova allegra Eleonora (Lunetta Savino) che ha una tresca col palestrato tuttofare dell’atelier. E il catalogo continua con le due attrici rivali, quella di teatro che si crede la Duse (Carla Signoris) e quella di cinema sprezzante come una star (Kasia Smutniak); la costumista Bianca Vega che ha vinto l’Oscar (Vanessa Scalera, la più brava di tutte) e che è il perno della storia del costume rosso che esplode nel manifesto del film; la tingitrice Carlotta che cerca il “rosa diamante” (Nicole Gribaudo), la zia delle sorelle Canova che ancora flirta coi giovanotti (Milena Vukotic) e via via fino a Fausta che grazie a dio alleggerisce la narrazione con la sua piccante ironia (evviva Geppi Cucciari!). Un cammeo sorprendente lo fa Mara Venier, per lei il regista inventa la cuoca Silvana, ex soubrette prodiga di carezze materne e di piatti succulenti, insomma zia Mara praticamente se stessa.

La sartoria Canova è racchiusa in questo mondo affollato di donne benevole e di manichini con abiti settecenteschi, nelle sale affrescate di un set più teatrale che cinematografico, osservato con gli occhi grandi del bambino cui Silvana regala una palla di vetro con un pesciolino rosso, metafora di tutti i bambini eternamente cullati tra le cosce delle donne/mamme, a cominciare dal regista. Ma Özpetek non è Fellini e Diamanti non è 8 e 1/2. Ed è inevitabile ricordare il celebre verso di De André “dai diamanti non nasce niente”.

Un applauso incondizionato lo faccio invece al giovane costumista Stefano Ciammitti, bolognese, allievo del mitico Piero Tosi, il maestro di tutti citato anche nel film, ideatore dei costumi compreso quello rosso che trionfa nella locandina. È un talento che ha già dato prova di sé firmando i costumi di Io capitano e della serie tv Lidia Pöet. A conferma che Bologna è sempre un habitat congeniale a chi fa il cinema.

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