Michela Di Renzo
Un racconto di ricordi

Il prendisole

«Mentre lo aspetto, mi siedo su una panchina sotto i pini. Sono così stanca che mi chiudono gli occhi. All’improvviso sento il rumore di una bicicletta che si avvicina e sollevo le palpebre...»

La via ha sempre lo stesso nome, quella del più famoso compositore italiano dell’Ottocento. Era prevedibile, perché è difficile che il Comune chiami in maniera diversa una strada. O perlomeno non in tempi così brevi. Che forse così brevi non sono nemmeno, almeno per me che sto percorrendo quella strada in macchina, perché da allora sono passati diversi decenni.  Ma il concetto del tempo è relativo, lo sappiamo. Ora che il traffico è aumentato parecchio però, la strada è diventata a senso unico, nonostante abbia due entrate e due uscite. “Prima non era così”, dico, mentre scalo le marce guardandomi intorno. “Anna, non ti distrarre per piacere”, mi fa Ennio. Anche se cerca di controllarsi, non mi sfugge la tensione con cui pronuncia le parole. Non si fida mai quando sono io che guido. Ma oggi non c’è solo quello, c’è anche il fatto che, complice l’epidemia di Covid, l’ho costretto a fare una vacanza che non lo entusiasma. Una vacanza che è un tuffo nel passato, nel mio ovviamente.

Poco fa il cuore mi si è spalancato quando dalla circonvallazione ho visto il mare dall’alto, con alle spalle il paese medioevale arroccato intorno al castello, e il cimitero addossato alle mura. “E’ quassù che mi piacerebbe essere sepolto”, diceva qualche volta mio padre quando arrivavamo in cima alla salita con la nostra centoventotto gialla. Stamani l’ho pensato anche io. Anche se so che non succederà mai. Come non è successo a lui, che è sepolto in un cimitero anonimo.

“Ci sono ancora i campi da tennis”, ho detto indicando alla mia destra appena iniziata la discesa. E ho pensato subito a Dario, il più bello della compagnia. Nel tardo pomeriggio ogni scusa era buona per fare un giro in bici pur di arrivare fino a lì, dove lui, bello come un dio pagano, correva da una parte all’altra del campo con le sue gambe lunghe un chilometro, aggiustandosi dietro all’orecchio il ciuffo biondo che gli cadeva sugli occhi ogni volta che colpiva la palla. Diventavamo tutte amiche di Sandra, sua sorella per via di lui, che non ci degnava di uno sguardo, preso com’era dalle sue imprese sportive. Al suo fianco c’era sempre il Gordini, uno sgorbio nero e antipatico che non mancava mai di commentare con una voce nasale da Paperino, appena ci vedeva arrivare: “Ma cosa siete venute a fare?”. Di certo non a vedere te, mormoravamo io e Alessandra, prima di risalire sul sellino. Poi un anno Dario smise di giocare a tennis e di frequentare il Gordini. Qualcuno parlava di fumo, qualcuno di eroina. Fatto sta che era diventato ancora più irraggiungibile. E anche meno bello. I suoi sulla spiaggia si lamentavano che passava tutte le notti fuori e che dormiva di giorno. “Bisognerebbe che ci fosse il coprifuoco”, pontificava quel destrorso di suo padre, mentre il mio sorrideva senza replicare. A casa mia non ce ne sarebbe mai stato bisogno, perché bastava uno sguardo corrucciato di mio padre a farmi tremare di paura. E a ricordarmi a che ora dovevo tornare.

Ennio ha schiacciato un’altra zanzara. Che in queste zone sono tremende, perché sono talmente piccole che si vedono appena. E non fanno rumore. Ma si fanno sentire in un altro modo. “Appena possibile dobbiamo comprare gli zampironi”, mi dice. “Oltre a un quintale di Autan”.

Sulla destra della via c’è la casa che i genitori di Alessandra prendevano in affitto tutte le estati. La mia mamma e la sua, vicine di ombrellone, avevano fatto amicizia perché entrambi i mariti lavoravano durante la settimana e venivano al mare soltanto il sabato e la domenica. Mentre loro due parlavano di come cucinare il pesce o dei prezzi esorbitanti del supermercato più vicino, dove andavamo in bici ogni mattina a fare la spesa, io e Alessandra nuotavamo fino alla boa o andavamo a piedi fino agli scogli, che erano sovrastati da una villa diroccata, sui cui abitanti ci piaceva fantasticare. L’anno che i genitori di Alessandra si separarono, lei e sua madre vennero al mare solo per una settimana e Ale era molto cambiata. La sera si truccava parecchio e si metteva seduta per ore dal Giovannini  in attesa che qualche ragazzo ci abbordasse. Io mi annoiavo a morte, anche perché quelli che si avvicinavano non mi davano mai molta corda, mentre erano attratti dalle sue scollature e dalle sue risate. L’anno dopo, quando non tornò, non ne sentii la mancanza. Anche se nel frattempo ero cambiata anche io.

“Rallenta che qua c’è una buca”, mi fa Ennio. Avrei rallentato comunque, perché voglio vedere se sotto il lampione sulla sinistra c’è ancora quella ringhiera bianca, così larga da poterci stare seduti. C’è ancora, anche se mezza sverniciata. E’ stato lì il mio primo bacio. Paolo non era particolarmente attraente, con la pelle del viso butterata dall’acne. Ma era il primo che mi avesse fatto la corte. Un’occasione da non farsi sfuggire, visto che a sedici anni non ero ancora stata baciata. L’ansia di togliersi il pensiero mi rovinò la poesia del momento, facendomi dimenticare i suoi occhi verdi da sballo e il fatto che sapeva farmi ridere. Dettagli che mi tornano in mente ora, ora che sono invecchiata.

Pochi metri più in là si intravede l’ingresso della villa più bella della zona, adiacente al mare, ma ben riparata dagli sguardi indiscreti. Persino mia madre, che decantava sempre le qualità della nostra casa, doveva ammettere che quella era molto più bella. Si consolava col fatto che la moglie del proprietario era un donnone enorme, tutta vestita di scuro le poche volte che veniva sulla spiaggia, mentre lei aveva ancora il fisico magro e asciutto come a vent’anni e si poteva permettere i prendisole sgargianti di Ken Scott per cui aveva la fissazione. Il nostro gruppetto di ragazzi che si radunava sotto al lampione, accoglieva a braccia aperte i due figli del proprietario del villone, quando si degnavano di frequentarci, la ragazza, Roberta che fu la prima della zona ad avere la Vespa rossa fiammante e suo fratello Andrea che non si toglieva mai i Rayban nemmeno alle dieci di sera e che parlava solo di camice firmate.

“Pochi metri e ci siamo”, dico ad Ennio mentre ci stiamo avvicinando a quella che era la mia casa al mare.

“Accidenti quante macchine”, fa lui.

“Allora ce n’erano molte meno”, replico. “Eccola!” Non faccio in tempo a pronunciare la parola che mi accorgo che qualcosa è cambiato. Accosto sulla destra e scendo dalla macchina, con la speranza che di aver visto male, complice il sole che mi stava abbagliando. Invece no. La casa è proprio diversa. Dove una volta c’era il giardino con i pini alti tre o quattro metri, c’è un blocco di cemento quadrato con tre grandi porte finestre che affacciano su una balconata. Anche la siepe di pitosforo, quella per cui mio padre spendeva non so quanti soldi di giardiniere, perché il salmastro del mare lo faceva campare solo pochi anni, è stata sostituita da un graticcio di canne. E il pozzo in pietra, che mi incuteva tanta paura di cascarci dentro da piccola ma che a dieci anni scoprii essere finto, è scomparso. Accanto, sul pratino all’inglese che si doveva annaffiare ogni sera, c’era la pianta di corbezzolo che nacque da un seme che piantammo io e la mamma. Tutto scomparso, tutto mangiato da una nuova costruzione che ha inglobato quella di prima, rendendola più grande, ma più brutta. Chissà che fine avrà fatto la scala interna in legno che univa il piano delle camere al soggiorno. O la mia camerina con il letto a castello che si affacciava sul giardino.

Ennio mi accarezza la guancia. “Tutto bene?” Deve aver letto la delusione dipinta sul mio volto.

“Sì sì”, balbetto. “E’ che la casa, la casa ora è…è diversa”. E risalgo in macchina. Le cicale friniscono così forte che mi fanno male le orecchie.

“Vuoi che guidi io?”

“No, ormai arrivo fino all’albergo”.

“Anna, sono passati parecchi anni da allora”, dice Ennio dopo qualche minuto.

Ha ragione, ha ragione da vendere. Anche se potrei ribattere che nessuno dovrebbe permettersi di violare il mio luogo del cuore. E che quel luogo ora non esiste più.

Dopo qualche centinaio di metri siamo davanti all’albergo. Almeno quello da fuori non è cambiato. Ennio mi aiuta a scendere la valigia e poi si guarda intorno. “Ripensandoci questo mi sembra il posto giusto per un po’ di riposo. E ne abbiamo bisogno tutt’e due in questo momento”.  Ci incamminiamo verso la hall, io davanti, a capo basso, e lui dietro. La camera non è ancora pronta. “Vado a posteggiare”, fa lui. Mentre lo aspetto, mi siedo su una panchina sotto i pini. Sono così stanca che mi chiudono gli occhi. All’improvviso sento il rumore di una bicicletta che si avvicina e sollevo le palpebre. C’è una bambina sul sellino che viene verso di me. Ha dieci anni, è magrissima e bionda come il sole, con un nasino all’insù e lo sguardo sveglio. “Anna, non andare così veloce”, dice una signora che la segue, anche lei in bici, con una borsa di paglia nel cestino. La donna, che deve essere sua madre ha i capelli chiari, cotonati, come andavano negli anni settanta, con una fascia a pois sulla testa. Guardo con stupore il suo prendisole a fiori sgargianti, fuori moda. Con la coda dell’occhio mi sembra di intravedere delle iniziali in un angolo, KS. Ma probabilmente mi sbaglio. Mentre mi passano davanti alzano il braccio per salutarmi. Anche io faccio un cenno sollevando la mano. Perché hanno qualcosa di familiare.

Ennio mi scuote leggermente la spalla. Non l’ho sentito né visto arrivare.  Forse mi sono addormentata. O forse ero sovrappensiero. “Ma chi erano quelle due in bicicletta che hai salutato?” mi fa. “Le hai viste anche te? Una signora e una bambina?” “Certo. Una signora e una bambina”. “La signora con un prendisole come quelli che portava sempre la mia mamma?” “Questo non lo so. So che tra di loro parlavano in svedese. Ma come facevi a conoscerle?” Mi alzo e vado verso l’ingresso dell’albergo. Facendo finta di niente. Mi sa che questa faccenda del luogo del cuore mi sta prendendo troppo la mano.


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.

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