Roberto Cavallini
Al Museo dell'Ara Pacis di Roma

Inventare a colori

Una grande mostra rende omaggio a Franco Fontana, il fotografo che ha sempre scelto il colore per trasformare la realtà. Perché la vita è fatta di corpi, di luce e di contrasti

«La fotografia non è ciò che vediamo, è ciò che siamo.
La fotografia è il fotografo e io fotografo quello che penso, non quello che vedo.
Lo scopo dell’arte è rendere visibile l’invisibile.
Quando fotografo un paesaggio è il paesaggio che entra dentro di me, si fa l’autoritratto, così anch’io diventi un ‘paesaggio’, per esprimermi al meglio.
Sono un fotografo che fotografa la vita, non il paesaggio.
La mia operazione di ricerca è di isolare, nello spazio e nel tempo, ciò che normalmente si perde e si mescola nell’infinità dei particolari…ciò risponde ad una mia esigenza interiore: trovare un’unità armonica attraverso la cancellazione di tutti gli elementi di disturbo».

Franco Fontana è il fotografo del colore. Quando la fotografia italiana, e non solo, era prevalentemente concentrata sul bianco e nero, (non scordiamo però che contemporaneamente a Fontana erano attivi Guido Guidi grande studioso del paesaggio e del colore, del quale in questi giorni è in corso una ricca e importante mostra al MAXXI di Roma e Luigi Ghirri, altro importante innovatore del linguaggio fotografico), Fontana sposò il colore con trasporto e amore incondizionato, tanto che ancora oggi, durante la conferenza stampa di apertura e introduzione alla sua retrospettiva, ha ribadito che il colore è verità e che, in fondo, in fondo, un po’ sorridendo si rammarica per i fotografi che usano la fotografia in bianco e nero: «Peggio per loro».

Franco Fontana nasce a Modena nel 1933, comincia a fotografare dal 1961, verso la fine del decennio mostra con più evidenza nelle sue opere l’influenza dell’Espressionismo astratto, del Minimalismo, di Marc Rothko, di Barnett Newman e di Ed Reinhardt e infatti ne troviamo conferma in numerose fotografie esposte in questa mostra all’Ara Pacis di Roma, che spaziano dal 1958 al 2020.

Fontana ha sempre prediletto l’uso della pellicola invertibile Kodak Ektachrome rispetto alla Kodachrome (Steve Mc Curry, a differenza di Fontana, è stato un estimatore di quest’ultima pellicola con cui ha fotografato, tra le altre, la famosa Afghana finita in copertina sul National Geographic). Per Fontana non fu una scelta determinata dalla risposta cromatica fra i due diversi supporti sensibili, ma semplicemente perché l’Ektachrome poteva essere sviluppata in qualsiasi laboratorio “vicino casa” che poi avrebbe potuto, a sua volta, ricavare stampe attraverso il procedimento automatico del Cibachrome (non realizzabile autonomamente come il processo di sviluppo del negativo bianco e nero o colore), mentre la pellicola Kodachrome per essere sviluppata sarebbe dovuta essere spedita in Svizzera e l’attesa per la restituzione sarebbe stata almeno di due settimane. La “fame” di vedere subito il risultato del proprio lavoro vinse su tutto.

Le fotografie di Fontana sono caratterizzate da colori particolarmente accesi che sono ottenuti non attraverso particolari artifici o con l’uso di filtri polarizzatori, ma con il metodo della “sottoesposizione controllata” che in pratica vuol dire misurare l’esposizione sul punto più luminoso all’interno dell’inquadratura, così da rendere più saturi i colori della fotografia. Il passaggio al digitale, tranne qualche ritocco in post-produzione, non ha comportato significativi cambiamenti nel suo approccio fotografico. Perché in fondo a Franco Fontana non è mai interessata la fotografia come strumento di riproduzione. «Il rosso che ottengo in una fotografia è il mio rosso, non esiste oggettività, ma soggettività nell’operare, nel sottoesporre, nell’intervenire».

L’intervento di Fontana, come già anticipato, non si è limitato a quello cromatico, ma si è concentrato anche al taglio dell’inquadratura, alla volontà di “isolare”. In questo modo è riuscito a creare associazioni di elementi, soprattutto di porzioni di essi negandone la funzione originaria, per stabilire connessioni e significati totalmente arbitrari.

«Trovare un’unità armonica attraverso la cancellazione di tutti gli elementi di disturbo».

Occorre ricordare che ogni fotografo opera dei tagli, fotografando. Riduce in bidimensionale ciò che è tridimensionale, congela il movimento, crea associazioni tra elementi che non appaiono evidenti a qualsiasi osservatore, esclude dall’inquadratura figure che a suo avviso disturbano, ma in Fontana questi processi selettivi e di controllo sul colore sono esasperati tanto che, nella foto di un semplice paesaggio campestre, il riferimento è più immediato nei confronti dell’Espressionismo astratto che a un campo di grano.

La mostra, curata dallo storico fondatore e direttore della Maison Européenne de la Photographie di Parigi, Jean-Luc Monterosso, è ospitata dal 13 dicembre 2024 al 31 agosto 2025 al Museo dell’Ara Pacis di Roma e consta di una selezione di 200 fotografie, di istallazioni e di video.

Il percorso espositivo si apre con una veduta di Praga, già copertina di Time Life e del Frankfurter Allgemeine e con un ritratto di Franco Fontana realizzato da Giovanni Gastel. A seguire ci sono una serie di paesaggi sia naturali che urbani caratterizzati da rigorose geometrie ed essenzialità di elementi, per giungere alla fotografia a colori negli anni 1960-1970.

Con Skyline (1978) i contrasti e la saturazione cromatica definiscono la cifra fotografica di Fontana al paesaggio. Nella stessa sezione sono presenti alcune stampe vintage di paesaggi urbani, di frammenti, di asfalti, di automobili, e un nudo del 1969.

Nel 1979 Ralph Gibson invita i più influenti fotografi dell’epoca a contribuire al libro Contact Theory con un intero rullino in bianco e nero e Franco Fontana, accettando la sfida, sceglie come soggetto il Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR con la sua atmosfera metafisica, ma accanto alla ricerca in bianco e nero egli scatterà fotografie a colori che faranno parte anche della serie Presenze – Assenze.

Non solo paesaggio, Fontana è interessato alla bellezza delle forme femminili, e trova nella piscina, l’ambiente in cui la distorsione ottica provocata dal movimento dell’acqua esalta aspetti di sensualità che troveranno nelle Polaroid la loro massima espressione.

In mostra è esposta anche una riproduzione dello studio di Fontana: un insieme confuso di materiali in netto contrasto con il minimalismo e l’essenzialità delle sue fotografie nonché da una video-intervista del fotografo.

Fontana partendo dal minimalismo strizza l’occhio, specialmente nella serie di scatti dalla serie Luce Americana e Frammenti, allo stile iperrealista. Interessante è il video dedicato al tema del “colore”, posizionato tra due scatti della serie Frammenti, Havana 2017, in sequenza con alcune immagini di paesaggi urbani, che comprendono le opere realizzate a Los Angeles dal 1979.

Afferma Fontana: «Il paesaggio urbano completa i miei paesaggi naturali. I muri dipinti delle case somigliano a dei campi arati o a dei campi di grano giallo».

Nella sezione dedicata alle tre strade: la Route 66, il cammino di Santiago de Compostela e la Via Appia viene mostrata una tendenza verso una sorta di realismo, ma in forma simbolica.

È sempre il colore al centro della fotografia di Fontana e sia che si tratti di Asfalto, di Automobili, di Autostrada, nelle stampe o nei light box retro-illuminati tutto sembra una scusa per rubare colore dalla realtà e depositarlo su stampa fotografica con tutti i tradimenti possibili.

La trasformazione del linguaggio fotografico di Fontana è fondamentalmente determinata dai soggetti della sua ricerca ma sono sempre lo sfavillare dei colori, la giustapposizione delle forme, i soggetti costanti.

La presenza umana, tranne che nella serie Piscine o Polaroid dedicate alle curve femminili dove il corpo ha un ruolo riconoscibile, non è mai ripresa in volto, è comunque una presenza rara che si manifesta sotto forma di ombra in fondo come assenza o di spalle, esclusivamente come elemento cromatico nelle immagini di street photography negli Stati Uniti.

Un’ultima sezione della mostra è dedicata alla fotografia professionale di moda e di pubblicità, «quella che ho fatto perché dovevo pur mangiare…quella in cui dovevo dar corso alle esigenze del committente, dove gli elementi fotografati dovevano essere riconoscibili».

Ma in tutta la sua produzione fotografica, sia che si riferisse ai paesaggi urbani, a quelli naturali, ai corpi femminili e a tutto l’universo che Fontana stesso ha incontrato, che ogni elemento, incastonato in quel rettangolo 24 per 36 millimetri, è solamente l’oggetto di partenza per una articolazione linguistica che trasforma la realtà in un sistema visivo che oscilla tra l’essenzialità della geometria e la narrazione, tra l’astrazione e la rappresentazione.

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